RICCARDO FERCIA

Università di Cagliari

 

Litem suam facere da Adriano ai Severi*

 

 

SOMMARIO: 1. Litem suam facere ed ingiustizia della sentenza tra violazione processuale e vulnus alla situazione sostantiva. - 2. Il problema della palingenesi di Ulp. D. 5.1.15.1 e le tecniche processuali per l’applicazione della lex Cornelia de sponsu. - 3. Esegesi di Ulp. D. 5.1.15.1. - 4. L’ipotesi della condanna sostanzialmente ingiusta: materiali per una verifica. - 5. Configurazione ‘evolutiva’ della responsabilità del iudex privatus e tecnica formulare. - 6. Male absolvere: l’ipotesi dell’assoluzione sostanzialmente ingiusta. - 7. Esegesi di D. 12.6.60 pr. - 8. La responsabilità del iudex privatus ed il viatico verso la responsabilità del iudex imperiale. – Abstract.

 

 

1. – Litem suam facere ed ingiustizia della sentenza tra violazione processuale e vulnus alla situazione sostantiva

 

Gli studi sulla responsabilità del iudex privatus, e segnatamente sul problema del significato dell’espressione ‘litem suam facere’, oltre che sulla relativa tutela apprestata dall’editto del pretore evidenziano sistematicamente, come è agevole rilevare anche da un sommario esame della letteratura sinora formatasi su questo tema[1], questioni inerenti alla soggezione all’actio del giudice che abbia violato il perimetro del iudicium.

Questa prospettiva potrebbe forse dipendere da un qualche condizionamento indotto dall’esposizione istituzionale gaiana. Esaminiamo, infatti, il tratto leggibile di

 

Gai 4.52: Debet autem iudex attendere, ut cum certae pecuniae condemnatio posita sit, neque maioris neque minoris summa posita condemnet, alioquin litem suam facit; item si taxatio posita sit, ne pluris condemnet quam taxatum sit; alias enim similiter litem suam facit. minoris autem damnare ei permissum est…

 

Come noto, è da questo passo del quarto commentario[2] che si desume la correlazione tra il litem suam facere e la violazione del tenore della formula; evenienza che, secondo il giurista, ricorre in due ipotesi fondamentali: la condanna al pagamento di una somma diversa da quella dedotta nella condemnatio, e quella ad una somma superiore al limite stabilito con taxatio. La lettura di Gaio, d’altro canto, trova riscontri operativi – seppur non coincidenti con la casistica da lui considerata – nelle fonti documentarie a nostra disposizione, vale a dire – come è noto – la lex Irnitana[3] ed il papiro di Antinoopolis[4]: quanto, evidentemente, sembra consentire di scorgere quasi una ‘quadratura del cerchio’, che rafforza le letture restrittive dell’àmbito della tutela pretoria, intesa come conseguenza della violazione obiettiva delle regole procedurali che governano la fase apud iudicem del processo classico. A seguire questa impostazione, in sostanza, la fattispecie del litem suam facere costituirebbe una figura di responsabilità oggettiva: più precisamente, ed a ritenere, con la dottrina dominante[5], che la sentenza pronunciata nella casistica descritta da Gaio sia nulla e non costituisca, di conseguenza, titolo per esperire fondatamente l’actio iudicati, la responsabilità del giudice conseguirebbe alla vanificazione dell’interesse dell’attore, che comunque avrebbe consumato l’actio, ad avvalersi delle misure esecutive.

Orbene, dalla lettura del passo di Gaio, innegabilmente, non emerge in quali contesti possa concretizzarsi il litem suam facere ove la procedura formulare sia stata formalmente rispettata, ma il giudice emetta nondimeno una sentenza sostanzialmente ingiusta: il che pone comunque un grave problema in quanto, ad ammettere, sempre con la dottrina dominante, che in questi casi, seppur solo di regola e con riferimento alla sola esperienza classica, la sentenza sia comunque titolo per esperire l’actio iudicati, la divergenza tra situazione sostanziale ed esito processuale potrebbe essere tale da ledere, a seconda dei contesti, anche la posizione del convenuto, legittimato, per avventura, a dolersi della soggezione ad un’azione esecutiva solo formalmente ineccepibile, ma sostanzialmente ingiusta. Ed è appunto su questi aspetti che la questione si fa più complessa, tanto più ove si consideri che, a limitare la responsabilità onoraria del giudice alle sole ipotesi in cui si riscontri un’obiettiva violazione delle istruzioni formulari, essa tenderebbe sistematicamente a svanire ove il iudicium gli consenta un officium particolarmente ampio: il che riguarda una casistica davvero significativa (si pensi ai iudicia bonae fidei, od a quelli in bonum et aequum), forse troppo vasta per ritenere soddisfacente la lettura restrittiva dell’àmbito operativo del litem suam facere cui abbiamo fatto cenno[6].

Questa è, in estrema sintesi, la tavola dei problemi; ma andiamo per ordine.

Innanzitutto, mi pare di poter aderire alla ricostruzione, normalmente accettata, secondo la quale il litem suam facere consisterebbe nel pronunciar sentenza nonostante l’esistenza di un interesse in causa, che compromette l’imparzialità del giudice[7]. Ciò non contraddice, ad ogni modo, l’ipotesi dell’Arangio-Ruiz[8], che ravvisava nell’espressione il ricordo dell’appropriazione indebita della res litigiosa: si tratta, a mio parere, di una congettura alquanto ragionevole, che ben può essere alla base dell’accezione classica dell’espressione.

In secondo luogo, è da dirsi che la fattispecie, anche per Gaio, ben potrebbe essere più ampia: l’esposizione di Gai 4.52, infatti, non era stata pensata per delineare i problemi posti dal litem suam facere, ma semmai per evidenziare alcune specifiche questioni in tema di tecnica formulare, insieme con le relative ricadute pratiche; ed il testo di cui disponiamo appare purtroppo mutilo nella sua parte finale, sicché la lacuna del testimone preclude ex se di trarre da esso ulteriori probanti indicazioni.

Prima di addentrarci nel vivo delle questioni or ora delineate, è peraltro indispensabile determinare le coordinate per una palingenesi del testo ulpianeo conservato da D. 5.1.15.1, che evidenzia alcuni snodi centrali per la nostra indagine.

 

 

2. – Il problema della palingenesi di Ulp. D. 5.1.15.1 e le tecniche processuali per l’applicazione della lex Cornelia de sponsu

 

Consideriamo, dunque,

 

Ulp. 21 ad ed. (de adpromissoribus, 650 Lenel) D. 5.1.15.1: Iudex tunc litem suam facere intellegitur, cum dolo malo in fraudem legis sententiam dixerit (dolo malo autem videtur hoc facere, si evidens arguatur eius vel gratia vel inimicitia vel etiam sordes), ut veram aestimationem litis praestare cogatur.

 

Innanzitutto, alcune questioni minime di critica testuale.

Penso anch’io – ritenendo a tal fine comunque probante l’inscriptio – che il passo sia tratto dal libro XXI dell’ad edictum ulpianeo, in cui si discuteva di adpromissores, e non dal libro XXIII, in cui si trattava anche di litem suam facere[9]; penso anch’io, con il Burdese[10], che la fraus legi(s) costituisca un’artificiosa violazione del limite legale posto dalla lex Cornelia a tutela della posizione patrimoniale delle tre figure di adpromissores, di cui ci informa Gaio in un tratto del terzo commentario che è bene avere sott’occhio:

 

Gai 3.124: Sed beneficium legis Corneliae omnibus commune est. qua lege idem pro eodem apud eundem eodem anno vetatur in ampliorem summam obligari creditae pecuniae quam in XX milia; et quamvis sponsores vel fidepromissores in amplam pecuniam, velut in sestertium C milia <se obligaverint, tamen dumtaxat in XX tenentur> (Ph.E. Huschke). pecuniam autem creditam dicimus non solum eam, quam credendi causa damus, sed omnem, quam tum, cum contrahitur obligatio, certum est debitum iri, id est, <quae> sine ulla condicione deducitur in obligationem; itaque et ea pecunia, quam in diem certum dari stipulamur, eodem numero est, quia certum est eam debitum iri, licet post tempus petatur. appellatione autem pecuniae omnes res in ea lege significantur; itaque et si vinum vel frumentum aut si fundum vel hominem stipulemur, haec lex observanda est.

 

Alla luce del discorso di Gaio sulla lex Cornelia de sponsu dissento, tuttavia, dalla ricostruzione del Burdese nel momento in cui tende a parificare l’elusione della lex Cornelia ad una figura di ingiustizia procedimentale della sentenza[11], che ne implicherebbe la nullità, come pure dalla tesi che ravvisa nel contesto esaminato da Ulpiano un ipotetico «uso capzioso dei poteri processuali»[12].

Tenterò ora di delineare le ragioni di questo dissenso.

Invero, la violazione di un limite posto dal ius civile, come peraltro pacificamente il Burdese riconosceva, non è de plano riconducibile ad una taxatio formulare, sicché è impossibile ricondurre il caso alle ipotesi fatte da Gai 4.52, e ciò tanto più ove si rifletta sull’articolazione interna del dato normativo, che non stabilisce semplicemente il limite dei ventimila sesterzi, ma lo contestualizza altresì sul piano soggettivo e temporale, in quanto vieta di prestare garanzia, nel medesimo anno ed a favore del medesimo debitore, per una somma eccedente. A ragionare in questi termini, tuttavia, siamo ancora nel campo delle affermazioni generali, sicché s’impone una verifica in concreto delle difficoltà or ora rilevate: occorre, specificamente, tentare di ricostruire i meccanismi processuali conseguenti all’applicazione della lex Cornelia, ed a tal fine è necessario, a mio parere, ragionare sulla frase ‘quamvis sponsores vel fidepromissores in amplam pecuniam, velut in sestertium C milia <se obligaverint, tamen dumtaxat in XX tenentur>’.

«Se, com’è ovvio» – si è autorevolmente osservato – «non è possibile arrivare ad un’assoluta sicurezza sulla corrispondenza letterale dell’integrazione al testo gaiano», che dunque altro non rappresenta se non una congettura diagnostica[13], deve comunque ritenersi «al di fuori di qualsiasi dubbio che il senso del discorso del giureconsulto sia stato così esattamente colto»[14]. Pur con questa cautela, di cui occorre comunque tener conto, si desume a mio parere, innanzitutto, che il regime della lex Cornelia – contrariamente a quanto pensava il Frezza[15] – riguardasse espressamente sponsores e fidepromissores[16], e che sia stata l’interpretatio non solo a costruire i presupposti per l’applicazione estensiva del verbum legispecunia credita’, ma altresì a rendere, in un secondo momento, omnibus commune il beneficium[17].

In sostanza, la lex Cornelia de sponsu doveva contemplare gli adpromissores che si rendevano garanti mediante l’assunzione di un debito proprio, costituente pecunia credita; e doveva assicurare a costoro quello che Gaio descrive come un beneficium, rappresentato dal fatto che, quantunque in creditum andasse un valore superiore a ventimila sesterzi, la loro responsabilità – la loro soggezione all’azione – sarebbe stata nondimeno perimetrata a quella somma. Successivamente, l’interpretatio deve aver esteso siffatto beneficium anche ai fideiussores in via pressoché necessitata, posto che il ricorso alla fideiussio – con la quale, come noto, il garante non risponde affatto per debito proprio, ma per debito altrui – avrebbe costituito un evidente mezzo di elusione del precetto civilistico. Questa estensione, con ogni probabilità, deve aver concorso all’individuazione di criteri ermeneutici idonei ad estendere l’àmbito di riferibilità del creditum, che con il fideiubere, a ben vedere, non presenta alcuna reale affinità genetica. In questa prospettiva, che diverge solo in parte dall’ammirevole ricostruzione dell’Albanese circa la storia del creditum, la cui suggestiva forza persuasiva resta per me invariata, è possibile leggere il passo di Gaio in termini conservativi.

Il problema si polarizza, a questo punto, sull’individuazione del meccanismo con il quale fosse possibile assicurare il rispetto del limite legale all’esposizione del garante. Al riguardo, la questione è forse mal posta ove si tenti di inquadrare questa specifica peculiarità della disciplina in esame in una stretta alternativa che imponga di optare, in termini a mio avviso eccessivamente dogmatici, per una qualificazione della lex Cornelia ora come lex imperfecta, ora come lex perfecta alla luce delle note parole dell’epitome ulpianea[18]. È troppo poco, infatti, quel che sappiamo di questa distinzione; e se, come è del tutto ragionevole, pensiamo che neppure in quest’àmbito i prudentes si siano addentrati con approccio dogmatico, è semmai del tutto naturale ritenere che la loro scienza abbia determinato di volta in volta e con approccio casistico[19] le conseguenze dell’incidenza dei dati normativi rilevanti ora sul piano del ius civile, ora sul piano della sua interazione con il ius honorarium. In sostanza, a me pare poco fruttuoso porsi in un’alternativa netta[20] tra configurazione della lex Cornelia o come lex imperfecta, come tale necessariamente protetta in via di eccezione e, specificamente, in via residuale, dall’exceptiosi in ea re nihil contra legem senatusve consultum factum sit[21], o come lex perfecta, con conseguente invalidità (a questo punto parziale) dell’atto, che implicherebbe la perimetrazione ipso iure dell’obligatio al limite legale.

D’altro canto, la coazione al giudice in dolo ad assicurare, come dice Ulpiano in D. 5.1.15.1, la ‘vera’ stima della lite è tendenzialmente incompatibile con uno schema processuale in cui il rispetto del divieto della lex Cornelia conseguisse al ricorso ad un’exceptio: in tal caso, infatti, un problema di aestimatio litis in ipotesi ‘non vera’ difficilmente si sarebbe potuto porre, a meno di ritenere plausibile non solo la ricostruzione – autorevole quanto minoritaria[22] – che ritiene in certi contesti possibile, già per diritto classico, la cosiddetta eccezione in diminuzione della condanna, ma anche (e soprattutto) una congettura, da formularsi nel silenzio assoluto delle fonti, in ordine alla sua inerenza alla casistica in esame. Chi escluda la configurabilità di un simile meccanismo, o comunque – più cautamente – escluda che l’exceptio si in ea re nihil contra legem senatusve consultum factum sit’– od altra similare, magari prevista ad hoc per la lex Cornelia – possa a priori atteggiarsi ad eccezione in diminuzione della condanna, non avrà difficoltà, a questo punto, a percepire come il giudice, nel caso in cui le parti fossero comunque addivenute a litis contestatio su una formula contenente una siffatta exceptio, avrebbe potuto, solamente ed in alternativa, o ritenere fondata l’exceptio stessa, assolvendo per conseguenza logica il convenuto, o ritenerla – magari, se vogliamo, giudicando in fraudem legi(s) – infondata: ma a quel punto – dando, ovviamente, per accertato quanto dedotto nell’intentio – non sarebbero più percepibili gli spazi per configurare una stima della lite come ‘vera’ – ovvero in armonia con il precetto normativo a tutela dell’adpromissor – oppure come ‘non vera’, posto che l’alternativa si sarebbe posta, semmai, tra stimare – in caso di condanna – oppure non stimare affatto – in caso di assoluzione – il valore pecuniario dell’interesse dell’attore.

Insomma, il rispetto del divieto ben difficilmente era affidato all’inserzione di una exceptio. Per riprendere, a questo punto, direttamente il nostro ragionamento sul testo di Gai 3.124 – rectius, su quanto ci è consentito di percepire dal suo complessivo andamento, tenendo conto delle rilevate difficoltà testuali – potrebbe forse meglio cogliersi la duttilità dell’approccio dei prudentes ai problemi posti dalla lex Cornelia ove si ritenga che il dato normativo civilistico determinasse conseguenze rilevanti ipso iure – sicché, se vogliamo, da questo punto di vista sarebbe una lex perfecta – non già sull’atto, ma sul rapporto, e che queste conseguenze fossero apprezzabili non già per la via dell’intentio[23], né per quella di un’exceptio (in ipotesi, in diminuzione della condanna), ma semmai per la via di una condemnatio al quanti ea res est. In sostanza, il divieto civilistico avrebbe perimetrato il rapporto degradandolo a debito puro per l’eccedenza rispetto al limite legale: la lex Cornelia non avrebbe precluso, allora, la genesi del debito, ma ne avrebbe determinato la sua organica connessione con la responsabilità in modo da generare un vero e proprio dovere di prestazione, nei casi da essa astrattamente considerati, solamente entro il limite legale dei ventimila sesterzi[24].

Soffermiamoci, ora, sulla rilevanza sostanziale del fenomeno.

È, a mio parere, questa idea di ‘degradazione parziale del rapporto’ ad emergere nella tendenziale opposizione – la cui esistenza nel discorso gaiano, desumibile dal quamvis, può congetturarsi tra un obligari, che verosimilmente era verbum legis, ed un teneri, o comunque tra espressioni similari idonee a descrivere il rapporto tra la creazione di una verborum obligatio e la sua azionabilità – che figura in Gai 3.124, ben percepibile sol che si presti fede, in senso ‘sostanziale’, alla congettura diagnostica dello Huschke (‘quamvis in amplam pecuniam <se obligaverint>’ vs. ‘<tamen dumtaxat in XX tenentur>’).

Con riferimento, a questo punto, alle due categorie legali originarie – sponsores e fidepromissores, appunto, che assumono un debito proprio in funzione di garanzia – l’esposizione gaiana sembrerebbe lasciar trasparire che la legge implicasse non tanto «la nullità parziale dell’adpromissio superiore ai 20.000 sesterzi»[25], quanto piuttosto una disarmonia tra ‘Schuld’ e ‘Haftung’. In sostanza, a mio parere per l’adpromissor la ‘Schuld’ sarebbe comunque e senz’altro sussistente per l’intero; ex lege Cornelia, tuttavia, la relativa ‘Haftung’ risulterebbe ipso iure limitata alla somma di ventimila sesterzi.

Ne conseguirebbe, fra l’altro, che il garante che adempisse per l’intero non potrebbe poi contare sulla condictio indebiti, integrandosi probabilmente in tale evenienza una fattispecie se non identica almeno analoga a quella che governa l’adempimento di naturales obligationes. La ratio del dato normativo, infatti, parrebbe presidiare unicamente il rischio di un’esposizione ‘anomala’ dei garanti nel mercato del credito, lasciando comunque a questi ultimi del tutto impregiudicata la valutazione dell’opportunità imprenditoriale di adempiere per l’intero: quanto è, appunto, salvaguardato dal fatto che, in ogni caso, la promessa di sponsores e fidepromissores di per sé determina il creditum, quantunque tale creditum sia poi coercibile con l’actio sino a ventimila sesterzi, e pure per l’eccedenza.

È evidente, ad ogni modo, che siamo ben lontani dal raggiungimento di una qualche certezza su questi aspetti: forse meno lineare, in particolare, parrebbe, nell’ottica sinora delineata, l’applicazione della lex Cornelia ai fideiussores, e ciò per il fatto che costoro, come si è detto, si rendono garanti per debito altrui. Nel silenzio delle fonti, è evidente che qualsiasi ipotesi – tra cui, evidentemente, anche quella inerente alle condizioni dell’eventuale regresso del garante – sarebbe largamente congetturale; e tuttavia, una volta ammessa, per via d’interpretatio, la perimetrazione ipso iure della responsabilità mera del fideiussor al limite di cui alla lex Cornelia, non può certo escludersi che – di pari passo con la progressiva elaborazione scientifica che tendeva a limare la distanza tra accessorietà funzionale ed accessorietà strutturale – l’eventuale rimedio restitutorio esperito dal fideiussor adempiente contro il garantito potesse essere paralizzato dall’exceptio doli generalis, ove s’immagini di ricondurre a dolus malussub specie di una figura di ‘abuso’ del divieto posto dalla lex Cornelia – una pretesa restitutoria conseguente all’adempimento di una prestazione che, pur sempre, il garante aveva posto per l’intero sotto la propria fides.

Ad ogni modo, il problema per noi centrale non è quello posto dall’adempimento dei garanti in violazione del divieto, che evidentemente deve rimanere questione aperta, ma semmai quello dell’applicazione della lex Cornelia nei casi in cui i creditori agissero nei loro confronti: la domanda cruciale è costituita, infatti, dalle modalità processuali con le quali il beneficium potesse farsi valere, sulle quali siamo ora in grado di soffermarci brevemente.

Sul piano della tecnica formulare, dalla quale evidentemente la nostra ricostruzione non può prescindere, si può ipotizzare, a mio parere, che la costruzione dell’intentio conseguisse, di volta in volta, alla specificità della conceptio verborum della stipulatio adoperata in funzione di garanzia, e senza che ciò implicasse, di per sé[26], pluris petitio re, quale che fosse poi la figura negoziale integratasi; che, per quanto si è detto, non si ricorresse ad una exceptio, a meno di avventurarsi a congetturare l’integrazione di una figura di eccezione in diminuzione della condanna; e che la condemnatio, per converso, non fosse mai certae pecuniae posita, né tanto meno munita di taxatio[27], ma costruita in modo da consentire una aestimatio litis. In sostanza, come si accennava, a mio parere occorre pensare ad una condemnatio al quanti ea res est, sul modello della condictio, da determinarsi di volta in volta, per così dire, ‘ex lege Cornelia’.

Sarebbe, a questo punto, all’interno dell’aestimatio – e dunque in sede di determinazione dell’ammontare della condemnatio – che il giudice deve valutare la sussistenza – o meno – dei presupposti del limite legale, vale a dire l’identità di soggetti del rapporto trilatero di garanzia (idem pro eodem apud eundem) e l’unicità di contesto cronologico (eodem anno).

 

 

3. – Esegesi di Ulp. D. 5.1.15.1

 

Abbiano sinora evidenziato come Ulpiano, nell’argomentazione confluita in D. 5.1.15.1, faccia riferimento ad un’aestimatio dolosa – segnatamente, in fraudem legi(s) – per individuare i presupposti della responsabilità del iudex privatus: più precisamente, quest’ultimo è tenuto a praestare quella ‘vera[28] alla parte che ne subisca un pregiudizio patrimoniale, quanto presuppone, evidentemente, che anche la clausola condannatoria dell’azione adversus iudicem – da ritenersi, con il Lenel[29], veicolata per il tramite di una sola formula directa, in factum concepta – non contenesse l’indicazione di una certa pecunia[30].

In questo contesto processuale, che nulla autorizza a considerare quello di una cognitio classica[31], è da ritenersi, per quanto abbiamo via via rilevato, che il giurista facesse il caso di una condanna formulare artificiosamente elusiva, a livello della conceptio verborum della condemnatio, del dato normativo civilistico a tutela della posizione patrimoniale degli adpromissores: segnatamente, doveva fare il caso di una condanna – al quanti ea res est, nell’ottica qui suggerita – di un adpromissor determinata in concreto oltre il limite legale senza incorrere formalmente nel litem suam facere procedurale.

Vediamo ora, più in dettaglio, quali siano i problemi sottesi dal ragionamento del giurista.

Ulpiano ci dice che il giudice ‘fa sua la lite’, e che è possibile invocare il rimedio pretorio contro quest’ultimo; non ci dice, però, chi, tra l’attore e il convenuto, sia legittimato a percorrere questa via della giustizia. Ora, a me pare evidente che, al riguardo, qualsiasi soluzione sarebbe largamente congetturale; e tuttavia, delle due l’una: ove si ritenga, aderendo anche su questo punto alla prima ricostruzione del Burdese[32], che la sentenza emessa in frode alla lex Cornelia sia nulla, l’azione in factum consentirebbe all’attore, che avrebbe consumato inutilmente l’actio, di porre a carico del giudice la litis aestimatio; ove, invece, la si ritenga valido titolo per l’actio iudicati, essa consentirebbe al convenuto di porre a carico del giudice in mala fede il pregiudizio patrimoniale patito.

Tra le due possibilità, opterei, come forse sarà apparso implicito nella mia argomentazione, per questa seconda.

Ed in questo dovrebbe, a mio parere, valorizzarsi uno spunto espresso nell’esegesi che il Burdese aveva, da ultima, suggerito: ipotizzando una «fraudolenta disapplicazione», da parte del giudice, di «norme autoritative ritenute tassativamente vincolanti» nel contesto del processo formulare classico, «occorrerebbe senz’altro» – osservava il compianto Maestro annotando alcune recenti analisi[33] – «ammettere che almeno in tali casi l’azione avverso di lui potesse essere ormai esperita pure dal convenuto danneggiato dalla sentenza (indipendentemente o meno dal considerare valida la sentenza) con più elastica interpretazione, in termini di parzialità partecipativa, della locuzione litem suam facere»[34].

Io credo che sia questa l’intuizione davvero decisiva per l’intelligenza del passo. Con una sola precisazione: se la sentenza fosse risultata nulla – come lo è nell’ipotesi di Gai 4.52 – nel caso prospettato da Ulpiano in D. 5.1.15.1, non si vedrebbe perché il giudice dovrebbe rispondere per la ‘veraaestimatio litis, e non più semplicemente per l’aestimatio ‘tout court’. In sostanza, in questo caso l’azione adversus iudicem è data all’adpromissor astretto a pagare oltre il limite posto lex Cornelia, dolosamente eluso dal giudice: agendo in via onoraria, egli otterrà di costringere quest’ultimo a farsi carico della ‘vera stima della lite’[35], espressione che, a mio parere, compendia il riferimento ad un contesto fattuale particolarmente complesso.

E difatti, una vera e propria fraus legis(s) da parte del giudice, incidente sulla valutazione del quanti ea res est e, quindi, idonea a compromettere la determinazione, qualificata come ‘vera’, della litis aestimatio, andrebbe forse ascritta non tanto ad una condanna formalmente eccedente il limite legale, dato che in tal caso, almeno a seguire un interessante spunto del MacCormack[36], si verserebbe in un contesto contra legem, e si aprirebbe effettivamente la via ad un problema di nullità della sentenza; ma, semmai, ad un’ipotesi in cui il convenuto avesse apud iudicem dimostrato di essere già stato condannato in precedenza per una somma pari a ventimila sesterzi con riferimento a garanzie prestate nel medesimo anno e per il medesimo debitore: in tale evenienza, è plausibile ritenere che la (determinazione della) condanna, ancorché formalmente contenuta entro il limite legale, potesse prestarsi ad una sostanziale elusione della norma. La fraus legi(s) consisterebbe, allora, in una capziosa distinzione – resa ancor più grave dall’identità soggettiva che sottende complessivamente i vari processi – tra un iudicatum facere oportere già integratosi in capo al garante, ed il rapporto dedotto nel iudicium su cui incide il dolo giudiziario qualificato di cui discutiamo, adoperata al fine di eludere il limite legale dei ventimila sesterzi; una distinzione che, in ultima analisi, per adoperare una terminologia cara a Giuliano[37], elude la ‘veritas’ che connota il rapporto sostanziale ante litem contestatam e, comunque, l’unicità ‘trasversale’ di un’ipotetica origo solutionis in una simile casistica.

Se ciò è vero, è allora forse più agevolmente percepibile la possibilità che il quantum di una aestimatio, della cui ‘veritas’ Ulpiano discute, fosse suscettibile di variare di volta in volta, riverberandosi sulla necessità di determinare, a sua volta, l’esposizione patrimoniale del iudex nei confronti del convenuto leso dal dolo giudiziario.

Che, poi, astraendo dal caso, il dolus malus che si contestualizza nell’elusione di un dato normativo di ius civile potesse, in teoria, rappresentare ex se un parametro applicabile anche ad altre figure di fraus legi(s), è a mio parere del tutto ragionevole: ma in D. 5.1.15.1 il dato normativo eluso è, con ogni probabilità, proprio la lex Cornelia. Altro, per diritto classico, non possiamo dire: la generalizzazione della ratio argomentativa, da ricondursi alla compressione dell’originaria contestualizzazione da parte del giurista, è con ogni probabilità giustinianea, e va interpretata alla luce della tendenza, da parte dei giudici del VI secolo, ad escogitare argomentazioni strumentali ad eludere le riforme imperiali non gradite[38]. In questo senso il dolus malus in fraudem legi(s) subisce, nel contesto dell’ordinamento imperiale, un’eterogenesi giuspolitica del discorso originario di Ulpiano.

Per altro verso, non vedo motivo per dubitare della genuinità del successivo riferimento all’arguere dolum[39].

Anzi, l’espressa riconduzione del dolo giudiziario ad alcune specifiche circostanze soggettive (gratia, inimicitia, sordes) da scrutinarsi rigorosamente in base alla sussistenza di palesi indici sintomatici (si evidens arguatur, ecc.) m’induce a ritenere che il criterio indicato nel passo sia classico, non integrando ancora una figura di imputazione presunta della responsabilità, come avviene invece nella cultura giuridica bizantina.

È quest’ultima, invero, una prospettiva – ben evidenziata in dottrina[40] – che tende ad emergere già in età altopostclassica, almeno a tener presente l’esposizione delle Res cottidianae confluita nel Digesto (che considero, seppur con la dottrina minoritaria[41], una rielaborazione condotta con materiali gaiani) e delle Istituzioni imperiali, che su di essa si basa per inquadrare la fattispecie nella categoria giustinianea dei quasi delitti, come risulta bene da

 

Gai. 3 aur. D. 44.7.5.4: Si iudex litem suam fecerit, non proprie ex maleficio obligatus videtur, sed quia neque ex contractu obligatus est utique peccasse aliquid intellegitur, licet per imprudentiam, ideo videtur quasi ex maleficio teneri.

 

Gai. 3 rer. cott. D. 50.13.6: Si iudex litem suam fecerit, non proprie ex maleficio obligatus videtur: sed quia neque ex contractu obligatus est et utique peccasse aliquid intellegitur, licet per imprudentiam, ideo videtur quasi ex maleficio teneri in factum actione, et in quantum de ea re aequum religioni iudicantis visum fuerit, poenam sustinebit,

 

e da

 

I. 4.5 pr.: Si iudex litem suam fecerit, non proprie ex maleficio obligatus videtur. sed quia neque ex contractu obligatus est et utique peccasse aliquid intellegitur, licet per imprudentiam: ideo videtur quasi ex maleficio teneri, et in quantum de ea re aequum religioni iudicantis videbitur, poenam sustinebit.

 

Queste letture, che evidenziano un continuum espositivo nonché, ovviamente, normativo tra logiche postclassiche e sistemazione d’epoca giustinianea, mostrano la tendenza, tipica del diritto del VI secolo, a ragionare in termini di imputazione soggettiva della responsabilità, ancorché extracontrattuale, e secondo un meccanismo di presunzione in conseguenza del verificarsi dell’evento protetto[42].

Nel caso del iudex, l’imputazione consegue al provvedimento giudiziario scorretto, e segnatamente alla constatazione per cui il giudice, che ormai è un funzionario imperiale chiamato a far procedere al meglio la ‘perfetta’ macchina giudiziaria voluta da Giustiniano, non può in tal caso non aver sbagliato in qualcosa, foss’anche per misconoscenza delle norme imperiali. E quindi ne risponde licet per imprudentiam, in base ad un meccanismo d’imputazione a mio avviso del tutto analogo ad aliquatenus culpae, ovvero il criterio ideologico con cui nel VI secolo le Istituzioni imperiali, costruite con materiali gaiani rielaborati e come tali conservati nei frammenti delle Res cottidianae adoperati nei Digesta, fanno rispondere quasi ex maleficio gli imprenditori del fatto illecito dei loro ausiliari[43].

In sostanza, un testo che evidenzi la necessità di dimostrare l’esistenza del dolo difficilmente è ascrivibile alla cultura giustinianea, che avrebbe, semmai, polarizzato il discorso nell’ottica dell’imputazione soggettiva presunta.

Ciò chiarito, astraendo dalla peculiarità del caso considerato per Ulpiano il sententiam dicere dolo malo in fraudem legi(s) rientra nell’àmbito del litem suam facere, e determina una responsabilità da rapportarsi al parametro della vera aestimatio della lite: in quest’ordine di idee, io considero il frammento di Ulpiano una prova – forse l’unica ad essere tanto chiara in tal senso – della riconduzione del litem suam facere (anche) ad ipotesi di ingiustizia sostanziale della sentenza.

E dato che il dibattito in dottrina s’incentra proprio su questo problema, mi pare interessante polarizzare la nostra indagine verso le fonti che potrebbero deporre nella direzione qui suggerita. A tal fine, dovremo dunque esaminare il rapporto tra litem suam facere ed ingiustizia sostanziale della sententia, sia essa di condanna, sia essa di assoluzione.

 

 

4. – L’ipotesi della condanna sostanzialmente ingiusta: materiali per una verifica

 

Procediamo, a questo punto, ad esaminare il problema della condanna sostanzialmente ingiusta, alla quale si riferisce, in primis, proprio Ulp. D. 5.1.15.1.

A quest’ultimo frammento dedica dotte quanto ponderose pagine l’indagine dell’amico Roberto Scevola[44], la cui ricostruzione, assai vicina a quella del d’Ors[45] nell’escludere la responsabilità pretoria per la sentenza sostanzialmente ingiusta, non mi pare tuttavia condivisibile su un punto in fin dei conti centrale, vale a dire l’assoluta autonomia dell’iniuria iudicis rispetto alla tutela pretoria prevista per il litem suam facere; idea, questa, che si fonda, principalmente, su Ulp. D. 17.2.52.18 e su Paul. D. 46.1.67, riconducibili anch’essi alla casistica di cui ci occupiamo, e che è bene considerare immediatamente:

 

Ulp. 31 ad ed. D. 17.2.52.18: Per contrarium quoque apud veteres tractatur, an socius omnium bonorum, si quid ob iniuriarum actionem damnatus praestiterit, ex communi consequatur ut praestet. et Atilicinus Sabinus Cassius responderunt, si iniuria iudicis damnatus sit, consecuturum, si ob maleficium suum, ipsum tantum damnum sentire debere. cui congruit, quod Servium respondisse Aufidius refert, si socii bonorum fuerint, deinde unus, cum ad iudicium non adesset, damnatus sit, non debere eum de communi id consequi, si vero praesens iniuriam iudicis passus sit, de communi sarciendum.

 

Paul. 3 ad Ner. D. 46.1.67: Exceptione, quae tibi prodesse debebat, usus iniuria iudicis damnatus es: nihil tibi praestabitur iure mandati, quia iniuriam, quae tibi facta est, penes te manere quam ad alium transferri aequius est, [scilicet si culpa tua iniustae damnationis causam praebuisti].

 

Secondo Scevola, come si diceva, il riferimento alla fraus legi(s) in Ulp. D. 5.1.15.1 dovrebbe ricondursi ad un capzioso ricorso ai poteri procedurali[46]; mentre i testi da ultimo ricordati dimostrerebbero, seppur nel silenzio in ordine all’esperibilità dell’azione pretoria, l’infondatezza radicale della tesi del Kelly[47], secondo cui (anche) l’iniuria iudicis consentirebbe di invocare questo rimedio.

A mio avviso né l’una né l’altra ricostruzione sono pienamente condivisibili.

Innanzitutto, sul significato della fraus legi(s) in Ulp. D. 5.1.15.1 è più convincente l’opinione del Burdese, pur non potendosi trarre dall’esegesi di quest’ultimo Autore le conseguenze che egli, peraltro assai prudentemente, suggeriva.

Gli altri due passi considerati, per converso, non sembrano deporre senz’altro né a favore della tesi di Scevola, né a favore di quella del Kelly. Sul punto, in sostanza, a mio parere occorre intendersi: a ragionare in base al passo ulpianeo, è sicuramente da escludersi che a qualsiasi ipotesi di iniuria iudicis – l’iniuria iudicis «allo stato puro»[48] – corrisponda senz’altro la tutela pretoria; nulla esclude, invece, che a quest’ultima si potesse ricorrere ogni qual volta l’iniuria iudicis stessa risultasse qualificata da un particolare atteggiarsi del dolo nel sententiam dicere, sicché solo la sentenza in fraudem legi(s) di cui ci parla Ulpiano avrebbe esposto il giudice alla responsabilità pretoria.

Parrebbe allora da recuperarsi, anche da questo punto di vista e seppur con qualche precisazione, lo spunto – cui già abbiamo fatto un cenno – del MacCormack[49], che suggerisce di tenere distinto il caso della sentenza contra legem – che sarebbe comunque nulla – da quello della sentenza in fraudem legi(s), che invece – come nel caso di Ulp. D. 5.1.15.1 – sarebbe valida: distinzione, questa, in sé plausibile se riferita alla più matura esperienza giuridica dei tempi di Ulpiano, e ciò tanto più alla luce della puntualizzazione che i giuristi di epoca severiana evidenziavano[50] in ordine alla distinzione – di recente riesaminata in un accurato studio[51] – tra contesti contra legem e contesti in fraudem legi(s)[52]. È, ad ogni modo, da dirsi che, in quest’ordine di idee, il giudice risponderebbe per la sentenza resa contra legem alla stessa stregua della configurazione gaiana della responsabilità per l’ingiustizia procedimentale[53], sicché la tutela prescinderebbe comunque dal dolo; laddove la sentenza in fraudem legi(s) richiederebbe invece addirittura un dolo qualificato, che tenderebbe, in fin dei conti, ad atteggiarsi come l’inscindibile contraltare dell’elusione del precetto.

In sostanza, nella casistica considerata da Ulpiano la sentenza formalmente eccedente il limite posto dalla lex Cornelia potrebbe essere nulla in quanto contra legem, e legittimare, di conseguenza, l’attore ad esperire il rimedio pretorio avverso il giudice; potrebbe essere, invece, valida la sentenza in fraudem legis, in cui in ipotesi il giudice si determini a non tener conto dell’esistenza di precedenti condanne del garante, tutte sussumibili in astratto all’interno del medesimo contesto disciplinato dalla legge: sicché egli risponderebbe, questa volta, nei confronti del convenuto, ingiustamente esposto a misure esecutive eccedenti complessivamente i ventimila sesterzi. Il problema, a questo punto, consiste, quasi paradossalmente, nei silenzi delle fonti, dalle quali non è dato evincere alcun dato realmente significativo né in ordine al profilo (di qualificazione) del dolo giudiziario, né in ordine all’esperibilità dell’azione onoraria.

Vediamo, però, nel dettaglio i passi di Ulp. D. 17.2.52.18 e Paul. D. 46.1.67.

Con riferimento al primo di essi, vertente in tema di comunicazione di uno svantaggio patrimoniale incorso ad un socio nella societas omnium bonorum, è eccessivo, secondo me, ipotizzare[54] che il socius condannato iniuria iudicis non avesse l’azione pretoria neppure in caso di dolo giudiziario qualificato, perché solo nell’ipotesi della sentenza ingiusta il giurista ammette l’azione pro socio per costringere gli altri socii a partecipare al damnum.

Innanzitutto, nulla esclude che l’azione pretoria, in quanto promessa in factum ed a tutela di una figura di «responsabilità primaria»[55], potesse cumularsi con quella reipersecutoria, e ciò tanto più ove si consideri la circostanza che la tutela sarebbe esperibile avverso soggetti diversi. Vieppiù, è astrattamente verosimile, nel silenzio della fonte, che il socius non solo potesse agire contro il iudex, ma altresì fosse comunque tenuto a conferire il risultato patrimoniale dell’esperimento dell’azione avverso quest’ultimo a favore degli altri soci: così come, cioè, egli avrebbe l’actio pro socio per tutelare il proprio interesse al riparto del damnum, specularmente lo stesso rimedio consentirebbe agli altri soci di costringerlo al riparto del vantaggio patrimoniale conseguente al vittorioso esperimento dell’azione pretoria contro il giudice. Infine, questa esegesi non tiene conto delle ipotetiche conseguenze dell’insolvibilità dei socii, alla quale difficilmente il giurista sarebbe stato insensibile: basti pensare alla tutela de dolo malo, comunque concessa in termini di effettività sostanziale[56] ogni qual volta l’azione in teoria disponibile altro non sia se non – con terminologia bizantina – un’actio nuda, cioè un’azione da esperirsi contro un convenuto insolvibile.

In sostanza, nel silenzio della fonte sia in ordine alla sussistenza – o meno – del dolo del giudice, e con esso alla sua qualificazione, sia in ordine alla possibilità di agire in via onoraria contro quest’ultimo, sarei assai cauto nel trarre indicazioni davvero probanti nella direzione suggerita da Scevola: lo stesso Pugliese[57], che pure considerava il passo nell’ottica della rilevanza dell’iniuria iudicis al solo fine di determinare la sua incidenza sull’attuazione del rapporto sociale, non prendeva neppure in considerazione il problema dell’eventuale azione risarcitoria adversus iudicem.

Con riferimento al secondo passo, l’argomentazione di Paolo potrebbe condurre addirittura ad un risultato interpretativo antitetico a quello proposto da Scevola[58]: il fideiussore convenuto dal creditore, che opponga un’exceptio ingiustamente ritenuta infondata, non può trasferire le conseguenze patrimoniali dell’iniuria iudicis in capo al debitore iure mandati, perché ciò sarebbe iniquo; rectius, più iniquo della soluzione opposta[59].

In teoria, si potrebbe allora pensare che l’actio mandati contraria non spetti proprio perché il fideiussore può agire contro il giudice con l’azione in factum; ma anche questa è una congettura, tanto più ove si consideri, ancora una volta, che nulla si dice sull’elemento soggettivo. In realtà il ragionamento, a mio parere, dovrebbe muovere da una constatazione: il mandato è patrimonialmente neutro per il mandatario in relazione al perimetro dell’incarico[60], non determina obbligazioni corrispettive ed è insensibile, come tale, a regole di periculum in senso tecnico. È questo, secondo me[61], il senso della sua gratuità. Probabilmente, allora, l’iniuria iudicis – ancorché, per avventura, configurata in fraudem legi(s) – esula, in quanto rilevante alla stregua di una vicenda valutata in concreto come non inerente all’assetto d’interessi ed alla sua attuazione, da ciò che le parti reciprocamente devono praestare in base alla buona fede. Ma questo non dimostra, a mio modo di vedere, che il fideiussore non avesse l’azione pretoria: semplicemente il passo non dice nulla in merito.

Non mi sembra poi condivisibile che, ad ammettere l’esperibilità dell’azione pretoria, «si introdurrebbe surrettiziamente un mezzo generale di gravame a cui non risulta che i giuristi classici non abbiano mai pensato»[62]. Nella ricostruzione qui proposta, l’azione pretoria non è una sorta d’impugnazione della sentenza, tanto più ove si consideri che il convenuto è il giudice, che risponde di un illecito a titolo di responsabilità primaria. Neppure potrebbe dirsi che «si applicherebbe indebitamente un approccio ‘moderno’ qualora si volesse costruire una sequenza logica nella quale al litem suam facere fosse attribuita una funzione processuale-strumentale, configurandosi l’istituto come il mezzo attraverso il quale fare valere in giudizio l’iniuria iudicis la quale, di contro, assumerebbe valenza sostanziale»[63]: avrei, infatti, una certa difficoltà a ritenere possibile, nel modo di pensare dei Romani, una distinzione tra ‘figura giurisprudenziale’, quale sarebbe l’iniuria iudicis, e litem suam facere, che sarebbe invece un ‘istituto ben strutturato’.

Avrò modo di chiarire ulteriormente i termini della divergenza della ricostruzione qui proposta con riferimento alle fonti in cui si discute non già di condanna, ma bensì di assoluzione sostanzialmente ingiusta. Occorre, peraltro, al riguardo riprendere, preliminarmente, l’esame diretto di Ulp. D. 5.1.15.1.

 

 

5. – Configurazione ‘evolutiva’ della responsabilità del iudex privatus e tecnica formulare

 

Riprendendo, dunque, il discorso su Ulp. D. 5.1.15.1, se, in conseguenza del dolo qualificato del giudice, risulta compromessa la vera aestimatio litis, è evidente che egli pronunzierà una sentenza sostanzialmente viziata da una stima, come si diceva poc’anzi, ‘non vera’. 

In quest’ordine di idee, la distanza[64] tra quanto si legge in Gai 4.52, e quello che si desume dal passo ulpianeo, per chi ritenga di non poter seguire la prospettiva totalmente demolitoria del d’Ors[65], sarebbe più che altro apparente, e dovrebbe ricercarsi in questo: nel caso della mera violazione procedurale, che sia causa di nullità della sentenza, il litem suam facere ben può essere oggettivamente ricondotto alla sfera patrimoniale del giudice, stante, fra l’altro, la relativa semplicità della gestione dei concepta verba propri di qualsiasi perimetro formulare; nei casi in cui emerga, per converso, l’ingiustizia sostanziale del provvedimento[66], che normalmente non determina nullità della sentenza, è ragionevole invece attendersi un’imputazione soggettiva dell’illecito, segnatamente a titolo di dolo, sub specie di una fraus legi(s).

Il nesso tra l’esposizione gaiana or ora ricordata e la posizione di Ulpiano – che parrebbe il frutto di una progressiva evoluzione, tra il II ed il III secolo, nella determinazione del contenuto del litem suam facere – andrebbe, a questo punto, ravvisato non già nel testo conservatoci da D. 5.1.15 pr.-1, ma semmai nella testimonianza di Pap. Ant. I.22 [67], in cui – una volta che si riconosca nel testo, come è ormai tendenzialmente una communis opinio[68], un tratto del commento ulpianeo all’editto quod falso tutore auctore – un’ipotesi di litem suam facere puramente procedimentale determina ex se la responsabilità del giudice a prescindere da qualsiasi indagine sul contegno tenuto da quest’ultimo.

Ben diversa, d’altronde, è l’ipotesi della responsabilità conseguente ad una sentenza pronunciata nel rispetto delle regole procedurali, ma sostanzialmente ingiusta.

Siamo di fronte, infatti, in quest’ultimo caso, ad una situazione molto più delicata quanto alla valutazione della condotta del giudice, che ben potrebbe costituire, fra l’altro, un valido modello per ricostruire – al limite de iure condendo – soluzioni per problemi contemporanei: non esporrebbe a responsabilità, se fosse corretta questa ipotesi, l’iniuria iudicis non dovuta a dolus malus contestualizzantesi in fraudem legi(s); anzi, a mio parere dovrebbe pressoché sistematicamente escludersi la responsabilità ogni qual volta la soluzione in diritto della lite fosse correlabile ad un ius controversum, e ciò quanto meno alla luce del fatto che, in caso di dissenso tra le sententiae dei prudentes, come si legge in Gai 1.7 [69] iudici licet quam velit sententiam sequi, quanto appare ben distante dal poter determinare la soggezione ad un’azione esperita dalla parte in ipotesi danneggiata dall’opzione accolta.

D’altro canto, nel discorso di Ulpiano testimoniato da D. 5.1.15.1 l’esito sostanziale della lite non si radica su una complessa, articolata ed al limite contrastante prospettiva scientifica, ma nell’elusione di un dato normativo di ius civile di immediata applicabilità.

Quali, ad ogni modo, le conseguenze pratiche di questa prospettiva?

Al riguardo, occorre innanzitutto tener presente che la tutela pretoria apprestata per le figure di responsabilità primaria non è mai inquadrabile in schemi dogmatici fissi ed immutabili. Discutere, dunque, in termini invariabilmente assiologici, della funzione penale o meno dell’azione per il litem suam facere costituisce un’operazione poco fruttuosa, tanto più ove si consideri la pressoché totale assenza di fonti per ragionare adeguatamente sul punto, e l’impossibilità di trarre indicazioni probanti dalla sola considerazione secondo la quale l’azione sarebbe, per l’opinione di Giuliano, trasmissibile agli eredi, e non risulta esperibile noxaliter, prospettiva, quest’ultima, agevolmente superabile per diritto classico in considerazione dello status personae del iudex stesso:

 

Ulp. 5 ad ed. D. 5.1.16: Iulianus autem in heredem iudicis, qui litem suam fecit, putat actionem competere: quae sententia vera non est et a multis notata est.

 

Orbene, l’opinione giulianea – che mi pare informata al noto moralismo del giurista, ottimamente evidenziato dal Casavola[70] – risulta, a seguire il discorso di Ulpiano, che la ricordava – al fine di criticarla – anche nel III libro delle Disputationes[71], tanto isolata quanto comunemente avversata dai prudentes[72]; mentre nulla esclude che il poenam sustinere che leggiamo in D. 50.13.6 (e quindi nelle Istituzioni imperiali) sia la traccia di un argomentare comunque classico.

A mio parere, in sostanza, l’azione contro il giudice qui litem suam fecit deve considerarsi una figura di tutela che, in quanto in factum concepta, viene di volta in volta elaborata dai prudentes valorizzando, a seconda dei contesti pratico-applicativi, la sua riconducibilità ora alla funzione reipersecutoria, ora a quella penale, e ciò tanto più ove si consideri che la stessa determinazione della condanna consegue ad una valutazione equitativa. La condemnatio dell’azione, infatti, come noto, era in bonum et aequum, come avveniva nell’actio iniuriarum, e come si desume, in fin dei conti, dal fondo classico della rielaborazione gaiana confluita nel Digesto: basti pensare, appunto, a Gai. D. 50.13.6.

Si rende necessaria, a questo punto, una precisazione, che peraltro potrà forse risultare più chiara con la visualizzazione della formula directa della nostra azione, come proposta dal Lenel[73]:

 

C. Aquilius iudex esto. Si paret Nm Nm litem, quam inter Am Am et L. Titium iudicare iussus erat, suam fecisse, qua de re agitur, quantum ob eam rem aequum videbitur Nm Nm Ao Ao condemnari, tantam pecuniam C. Aquilius iudex Nm Nm Ao Ao condemnato, si non paret absolvito.

 

Come già accennato, non mi pare necessario ipotizzare una pluralità di conceptiones verborum della nostra formula[74], in quanto l’espressione ‘litem suam facere’, che appare pienamente idonea a descrivere il factum rilevante ai fini della tutela, è suscettibile di accogliere al suo interno i contenuti progressivamente individuati dall’interpretatio dei prudentes[75]. Allo stesso modo, la condemnatio in bonum et aequum consente ex se di determinare, di volta in volta, quale sia la responsabilità per l’aestimatio della lite che il giudice abbia ‘fatto propria’, e quindi anche di determinare, nel caso concreto esaminato da Ulpiano in D. 5.1.15.1, la aestimatiovera’ in funzione del calcolo dell’esposizione del giudice di mala fede nei confronti dell’adpromissor. In quest’ordine di idee, tra i contenuti del litem suam facere che figurava nell’intentio doveva rientrare senza eccessive difficoltà, ai tempi di Ulpiano, anche l’ipotesi della sentenza resa dolo malo in fraudem legi(s).

Soffermiamoci ora su questo aspetto, tenendo conto della configurazione processuale della questione.

Secondo un autorevole orientamento[76] con l’azione in factum la responsabilità del convenuto finirebbe per essere ‘trasferita’ in capo al iudex. Questa soluzione, tuttavia, parrebbe soddisfacente solo nelle ipotesi in cui il litem suam facere implichi la nullità della sentenza, in quanto in tal caso l’attore avrebbe consumato l’actio senza ottenere le misure esecutive, o comunque nel caso dell’assoluzione dolosamente ingiusta in senso sostanziale, di cui ci occuperemo più avanti.

Lascia, invece, in una certa aporia ove s’ipotizzi una condanna ingiusta in senso sostanziale, il che ci riporta alla casistica che potrebbe essere alla base dell’argomentazione di Ulpiano in D. 5.1.15.1: tenendo presente questa possibilità, dunque, ed a valorizzare ulteriormente gli spunti della più recente indagine del Burdese[77], in una prospettiva più ampia rispetto a quella normalmente seguita si potrebbe ipotizzare che il rimedio pretorio mirasse al raggiungimento di un risultato pratico di traslazione in capo al iudex dell’interesse delle parti, percepibile hinc et inde al momento della litis contestatio, alla corretta e fisiologica gestione della lite, legittimando all’azione, una volta pronunciata la sententia, quella che tra esse risultasse in concreto lesa dall’errore procedurale o dal dolo giudiziario qualificato. Non dimentichiamo, del resto, che la bilateralità è alla base della gestione negoziale dell’agere tramite litis contestatio, come pure bilaterale è l’atto d’individuazione del iudex.

Che, comunque, la formula in factum implicasse un meccanismo ‘sostitutivo’, seppur nei termini ampi or ora precisati, mi pare desumibile in fin dei conti dalla prima parte del passo di Ulpiano di cui già ci siamo occupati:

 

Ulp. 21 ad ed. (de adpromissoribus, 650 Lenel) D. 5.1.15 pr.: Filius familias iudex si litem suam faciat, in tantam quantitatem tenetur <eius pater?>, quae tunc in peculio fuit, cum sententiam dicebat. 1. Iudex tunc litem suam facere intellegitur, cum dolo malo in fraudem legis sententiam dixerit (dolo malo autem videtur hoc facere, si evidens arguatur eius vel gratia vel inimicitia vel etiam sordes), ut veram aestimationem litis praestare cogatur.

 

Ad esaminare il complessivo svolgimento del pensiero del giurista emerge, infatti, che, se il iudex che fa propria la lite è un filius familias, sorge una responsabilità garantita dal peculio al momento della pronuncia della sentenza (fr. 1 pr.); e che egli fa propria la lite nel momento in cui pronuncia dolosamente sentenza, vale a dire – nel caso di specie – in frode alla lex Cornelia, per modo che è tenuto in base al parametro della vera stima della lite (fr. 1.1).

Questi i dati essenziali: procediamo ora all’esegesi dell’intero passo.

Ribadirei, innanzitutto, come nell’argomentazione del giurista, complessivamente considerata, non si espliciti chi, tra attore e convenuto, sia legittimato attivo all’azione pretoria adversus iudicem; e come, tuttavia, per quanto già osservato, la parte lesa dal dolo giudiziario debba essere con ogni probabilità non già l’attore, vale a dire il creditore che agisca contro l’adpromissor, ma il convenuto, cioè l’adpromissor condannato dolosamente in frode alla lex Cornelia.

Soffermiamoci ora, però, sulla specifica configurazione della taxatio inerente all’esposizione patrimoniale de peculio.

Con riferimento all’impraticabilità di una conceptio verborum de peculio dell’azione avverso il giudice l’esegesi di Scevola[78] mi pare forse troppo dogmatica: sia perché il negotia gerere costituisce, ex se, una formula ampia dell’editto, che non vieta affatto di includere gli atti del iudex privatus, ove si consideri che quest’ultimo è, come diceva esattamente il Burdese, «un giudice-arbitro privato di gradimento delle parti»[79]; sia perché – come da tempo la dottrina riconosce con riferimento alla tutela penale adversus nautas caupones stabularios – la clausola de peculio era una risorsa processuale adoperabile anche nell’àmbito della tutela pretoria delle figure di responsabilità primaria: ed in questo percorso è stato maestro il Serrao[80].

Il giurista, a mio parere, tratta dunque dell’esperibilità dell’azione pretoria avverso il pater di un filius familias iudex; e chiarisce che essa deve darsi de peculio. Il rimaneggiamento è evidente: avviatosi, già in età classica, un tendenziale superamento del problema della capacità patrimoniale dei filii, nel testo convive la responsabilità adiettizia (che appunto è in capo al pater, e tale doveva ancora essere, almeno in questo caso, ai tempi di Ulpiano)[81] con la generalizzazione giustinianea della legittimazione passiva diretta del filius.

È interessante, però, rilevare come il peculio, in caso di esperimento dell’azione pretoria contro il pater del filius iudex, debba valutarsi non già (come, in teoria, in qualsiasi azione data de peculio) al momento della sentenza da rendersi in quest’ultimo processo; ma – contra tenorem rationis, aspetto di recente avvertito[82] – al momento della sentenza resa dal filius iudex. Ciò sottrae, evidentemente, la parte lesa dal dolo giudiziario alla tendenziale aleatorietà della misura del soddisfacimento, ma allo stesso tempo – stante l’unicità, quanto a contesto sociale e soggetti, della figura di tutela – può ben esser di danno al pater, a cui carico viene posto – quasi a creare una sorta di responsabilità obiettiva ‘familiare’, seppur solo eventuale – il rischio di un’esposizione patrimoniale più ampia di quella consistente nell’affidamento del patrimonio peculiare.

È da dirsi, ad ogni modo, che in questa – in sé speciale – individuazione del momento rilevante per la determinazione del contenuto patrimoniale del peculio si riscontra comunque un contemperamento di interessi, che tiene conto della posizione del pater. Se, infatti, la vera aestimatio litis è contenuta nel peculio del iudex valutato al momento della pronuncia della sentenza ingiusta, la garanzia patrimoniale della parte che ne subisce il danno non può essere vanificata da un’ipotetica prededuzione di crediti naturali a favore del pater, né da altre eventuali successive sopravvenienze passive; ma è altresì vero che, se per converso il peculio è incapiente al momento della sentenza ingiusta, quest’ultimo non risponderebbe oltre il valore del peculio determinato a quel momento ove, per avventura, fosse capiente al momento della condanna.

In questa prospettiva, il momento cui occorre rapportare il meccanismo di traslazione avverso il giudice dell’interesse delle parti alla vera aestimatio litis, garantito dal peculio inteso come ‘patrimonio separato’, è quello del sententiam dicere: la cristallizzazione della taxatio al momento della sentenza ingiusta – vale a dire del fatto lesivo – parrebbe, dunque, non solo precludere la prededuzione di eventuali crediti naturali del pater, ma altresì, ed oggettivamente, la rilevanza di qualsiasi successiva alterazione del patrimonio peculiare.

Pare opportuno, a questo punto, tentare di visualizzare nuovamente un’ipotetica conceptio verborum formulare, che può essere d’aiuto per comprendere il ragionamento del giurista. Dando al nostro iudex il nome di Gaius, figlio di Numerius Negidius, la formula in factum de peculio, in sostanza, muovendo da quella directa ricostruita dal Lenel, già esaminata, doveva suonare, press’a poco, in questi termini:

 

C. Aquilius iudex esto. Si paret Gaium Ni Ni filium familias  litem, quam inter Am Am et L. Titium iudicare iussus erat, suam fecisse, qua de re agitur, quantum ob eam rem aequum videbitur Gaium Ni Ni filium familias  Ao Ao condemnari, dumtaxat de eo quod tunc in peculio fuit tantam pecuniam C. Aquilius iudex Nm Nm Ao Ao condemnato, si non paret absolvito.

 

Una simile conceptio verborum – che forse non prevedeva, in quanto superflue stante la sua singolare tassatività sul punto, le clausole di salvaguardia relative alla versio in rem patris ed alla consunzione del peculium[83] – in tanto può congetturarsi, in quanto si ritenga che in D. 5.1.15 pr. l’originario dettato di Ulpiano desse specifiche indicazioni ad formulam, e che di questa argomentazione il tratto ‘in tantam quantitatem tenetur, quae tunc in peculio fuit’ fosse riferito proprio ad un commento ai verba con i quali doveva essere costruita la condemnatio della nostra formula in factum. Il che appare, se vogliamo, coerente con la difficoltà processuale di fondo che doveva emergere in questa casistica: l’azione, infatti, non è nossale; allo stesso tempo, il concreto atteggiarsi della funzione penale parrebbe seguire percorsi autonomi, decisamente irriducibili, in termini assiologicamente invariabili del tutto estranei al modo di pensare dei Romani, alle normali caratteristiche che di solito connotano la struttura formulare delle azioni penali private.

La difficoltà testuale segnalata per D. 5.1.15 pr., dovuta al rilevato rimaneggiamento che avrebbe compresso un inattuale chiarimento ad formulam, parrebbe lasciar intravedere, in definitiva, l’originaria prospettazione della questione da parte di Ulpiano: quel che, comunque, mi pare plausibile, per concludere questa prima parte dell’indagine, è che la valutazione del peculio al momento della sentenza ingiusta ben può essere un indice probante del rilevato meccanismo di traslazione in capo al iudex dell’interesse bilaterale delle parti alla correttezza sostanziale del decisum, cui egli è tenuto nel momento in cui viene scelto da queste ultime, ed investito conseguentemente dal pretore del dovere di sententiam dicere.

 

 

6. – Male absolvere: l’ipotesi dell’assoluzione sostanzialmente ingiusta

 

Vediamo ora quali problemi ponga il caso del male absolvere: quanto mi consentirà di chiarire appieno la differenza tra la ricostruzione qui proposta, e quella suggerita da Scevola.

Consideriamo, al riguardo, un passo di Paolo:

 

Paul. 32 ad ed. D. 12.6.28: Iudex si male absolvit et absolutus sua sponte solverit, repetere non potest.

 

Scevola[84] ritiene che questo testo dimostri come il creditore non disponesse dell’azione pretoria contro il giudice per l’ingiusta assoluzione del suo debitore.

E tuttavia, il passo tace sia sull’elemento soggettivo, sia sull’esperibilità dell’azione pretoria. Io penso che questo testo semplicemente non provi a favore della tesi di Scevola; e che, comunque, non consenta di affermare che l’esperimento dell’azione in factum costituirebbe un inammissibile strumento per alterare l’assetto sostanziale fissato dalla sentenza.

Innanzitutto, a me pare ragionevole pensare che, quanto più risultino definitivamente immutabili i rapporti fra le parti a seguito dell’absolutio ingiusta, tanto più si debba ritenere consentito di trasferire il pregiudizio patrimoniale in capo al giudice di mala fede; ma mi rendo conto di formulare, in questo modo, un giudizio valoriale di cui è difficile trovar prova nelle fonti. In ogni caso, però, le fonti dimostrano che l’absolutio ingiusta, contrariamente a quanto ritiene Scevola, non esaurisce in sé i rapporti tra le parti: ad essa residua comunque qualcosa del rapporto sostanziale antecedente, che preclude di leggere nell’azione pretoria un meccanismo di stravolgimento dell’assetto sostanziale definito dalla sentenza; e ciò perché quell’assetto sostanziale non può dirsi né definitivamente esaurito, né definitivamente fissato.

Ma andiamo per ordine.

A seguire il ragionamento di Paolo, in caso di assoluzione ingiusta il pagamento spontaneo ad essa successivo non è ripetibile: la causa solvendi, dunque, si atteggia come accordo solutorio ‘forte’. Vediamone le ipotetiche ragioni, riproponendoci un riesame della questione per noi centrale – vale a dire, il rapporto tra litem suam facere e ingiusta absolutio – una volta dipanate le difficoltà poste da questa problematica.

Il passo in esame rappresenta una delle fonti più significative per i fautori della tesi, alla quale io stesso aderisco, che distingue il debito dalla responsabilità, professandone l’attualità teorica e metodologica e sottolineando come una connessione necessaria tra queste due entità concettuali sia una regola solo tendenziale; sulla base di questo testo di Paolo, inoltre, si è diffuso nel diritto contemporaneo, ed in specie in quello italiano, l’idea secondo la quale il pagamento spontaneo da parte del debitore ingiustamente assolto integrerebbe gli estremi dell’adempimento di obbligazioni naturali[85], disciplinato dall’art. 2034 cod. civ.

Non è questa, tuttavia, la sede per ripercorrere problemi tanto vasti.

Limitandoci alla prospettiva strettamente romanistica, anche a voler prescindere da un riesame delle tematiche, tuttora controverse, inerenti al problema dell’‘Obligationsbegriff’ ed alla necessità o meno che l’obligatio abbia quale suo requisito d’esistenza ordinamentale la tutela mediante actio, è comunque possibile rilevare come l’esegesi del testo s’incentri, in ultima analisi, sulla causa solvendi e, specificamente, sui presupposti funzionali di essa. Ora, è noto come proprio sul problema della causa solvendi sia sorto il dibattito, ormai tendenzialmente sopito, in ordine alla causalità o astrattezza della traditio classica: e ciò perché – aderendo, sostanzialmente, all’impostazione del Betti[86], tuttora dominante – la iusta causa traditionis, intesa come accordo sullo scopo pratico della consegna implicante trasferimento, di regola rappresenta l’avvio della fattispecie traslativa globalmente considerata (si pensi al rapporto tra venditio e traditio di res nec mancipi corporali a domino), mentre nel caso della solutio la finalità di estinguere l’obbligazione è autoreferenziale rispetto all’obbligazione di dare stessa[87].

Della causa solvendi, cioè, essa rappresenta un presupposto puramente esterno, la cui inesistenza non determina l’inconfigurabilità dell’accordo solutorio. Quest’ultimo, in buona sostanza, prescinde dall’esistenza dell’obbligazione di dare per quanto concerne l’effetto traslativo della traditio: la solutio – in chiave procedimentale: una traditio ex causa solvendi – prende vita nella realtà giuridica con il trasferimento attuato per estinguere un’obbligazione di dare; essendo impossibile, peraltro, ove quest’ultima non esista, il prodursi dell’effetto sostantivo suo proprio, che consiste appunto nell’estinzione del vincolo, il sistema accorda al tradens la condictio indebiti in quanto, non sussistendo un vincolo da estinguersi, la fattispecie risulta ingiustificata ad un esame di essa che vada al di là del mero riscontro dell’esistenza dell’accordo solutorio.

Per adoperare una terminologia cara alla civilistica tedesca, che continua tutt’oggi a mutuarla dal System e dall’Obligationenrecht di Savigny, lo ‘Zweck’ – la causa solvendi – non trova riscontro in un presupposto esterno dell’attribuzione, costituito dall’esistenza sostantiva dell’obbligazione da estinguersi, che concretizza hic et nunc lo scopo pratico in astratto preso di mira dalle parti: il difetto di questo legame non giustifica, ovviamente, la rivendica, ma la tutela in personam, cioè la condictio indebiti, con la quale l’accipiens sarà costretto a ritrasferire la proprietà ingiustamente acquisita.

Alla luce di questa dogmatica il passo di Paolo ci apparirà forse meno arduo.

Se la causa solvendi ‘forte’ si correla, sul piano del suo presupposto esterno, ad un’obbligazione già dedotta in un processo che abbia dato vita ad un’ingiusta assoluzione, è evidente che lo ‘Zweck’ non può non avere un suo fondamento esterno; quest’ultimo, tuttavia, non è da ricercarsi nell’esistenza sostanziale dell’obbligazione di dare ‘originaria’: di mezzo, infatti, si pone la litis contestatio, che l’ha dissolta, generando il teneri ex litis contestatione.

S’impone, dunque, di tener presente

 

Gai 3.180: Tollitur adhuc obligatio litis contestatione, si modo legitimo iudicio fuerit actum. nam tunc obligatio quidem principalis dissolvitur, incipit autem teneri reus litis contestatione. sed si condemnatus sit, sublata litis contestatione incipit ex causa iudicati teneri. et hoc est, quod apud veteres scriptum est ante litem contestatam dare debitorem oportere, post litem contestatam condemnari oportere, post condemnationem iudicatum facere oportere.

 

I problemi posti da questo famoso tratto del terzo commentario gaiano sono noti, e di recente riesaminati in un’accurata monografia[88]. Non procederemo, dunque, ad un’ulteriore analisi del passo gaiano.

Va solo qui precisato, al riguardo, che la prospettiva secondo la quale la litis contestatio rappresenterebbe un ‘colpo di spugna’ sul rapporto obbligatorio funziona bene, forse, solo per la scuola proculiana, e comunque con riferimento a giudizi costruiti sull’alternativa al si paret / si non paret: solo in questo specifico contesto scientifico e pratico, di conseguenza, la solutio post litem contestatam determina, in linea di principio, un indebito. La scuola sabiniana, nella quale Gaio si riconosce, accetta invece l’idea secondo cui tutti i iudicia – non solo quelli bonae fidei – sono absolutoria[89]: quanto, in sé, è incompatibile con un’opzione dogmatica che legga nella litis contestatio una vicenda idonea a porre radicalmente nel nulla l’intero rapporto, dato che l’adempimento ad essa successivo, anziché legittimare alla condictio indebiti, impone l’assoluzione.

Muovendo da queste considerazioni, il passo di Gaio va letto nel senso che la litis contestatio è un negozio giuridico processuale con il quale le parti devolvono al giudice i termini dell’azionabilità dell’oportere, trasferendoli dal piano sostanziale a quello processuale. Essa è, in altri termini, un accordo endoprocessuale sulle sorti della responsabilità che, sul piano sostanziale, è organicamente connessa con il debito: in altre parole, la principalis obligatio è il debito azionabile; il teneri ex litis contestatione costituisce semplicemente la configurazione processuale della ‘Haftung’, che nella prospettiva romana presenta un carattere di squisita strumentalità[90]. L’eventuale condanna, infatti, ‘porta via’ la litis contestatio, atteggiandosi a nuovo e definitivo titolo del rapporto (finale) di soggezione alle misure esecutive (iudicatum facere oportere), che appunto giustifica l’esperibilità dell’actio iudicati.

A corollario di quanto sinora emerso, è da dirsi che anche l’absolutio ‘porta via’, per dirla con Gaio, la litis contestatio, ma in vista dell’esito opposto: sottrarre ‘definitivamente’ il convenuto all’attuazione delle misure esecutive. Se, però, la litis contestatio, come abbiamo visto, incide sulla responsabilità, ma non sul debito, che le sopravvive inalterato, è quest’ultimo il fondamento ultimativo della solutio irripetibile in Paul. D. 12.2.68.

In altre parole, l’atto del solvere è invariabilmente il medesimo: risulta descritto come uno sponte solvere unicamente perché il fondamento di cui discutiamo non può più identificarsi, di per sé, con l’obligatio principalis astrattamente coercibile, ma con un debito divenuto puro in seguito dell’absolutio ingiusta.

In quest’ordine di idee, non pare convincente l’autorevole lettura del Pugliese, secondo cui la condictio era esclusa in quanto «questo debitore sapeva, nel momento di pagare, di essere stato assolto»[91]. Semmai, la soluzione di Paolo, esaminata con la lente dogmatica della corrente di pensiero che va dal Brinz al Betti, giustifica sul piano storico la tesi del debito senza responsabilità, nonché, evidentemente, la riconduzione della casistica tenuta presente da Paolo in questo passo dei libri ad edictum al novero delle naturales obligationes, che attualmente vanno considerate come debiti puri, sganciati dalla loro organica connessione con la responsabilità[92].

Ora, secondo Scevola «interessa esaminare quanto il giurista lascia intuire (ma non dice), ovvero che, se il debitore non avesse sua sponte adempiuto, il creditore non avrebbe potuto in alcun modo ottenere il pagamento. Nel caso di specie Paolo non intendeva soltanto ribadire l’immodificabilità diretta della sentenza ma anche (e soprattutto) puntualizzare che l’assetto sostanziale degli interessi avrebbe dovuto rimanere in ogni caso quello fissato dalla pronuncia giudiziale. Ciò escludeva in radice l’applicabilità dell’actio adversus iudicem, che avrebbe costituito uno strumento indirettamente finalizzato ad alterare tali assetti, laddove avesse conseguito il risultato di transferre ad alium la posizione patrimoniale (pur sfavorevole) acquisita per effetto della sentenza ingiusta»[93]. E tuttavia, se di presidio alla ‘immutabilità’ della sentenza dobbiamo parlare, una siffatta prospettiva può venire in rilievo, al limite, nei rapporti inter partes; ma il passo, nel suo conclamato silenzio sul punto, nulla dice in ordine alla ritenuta impossibilità di agire contro il giudice che si sia pronunciato in danno di una delle parti, e segnatamente, in questo caso, in danno dell’attore.

La circostanza che l’adempimento risulti spontaneo, di per sé, è ininfluente per ragionare in questa direzione: si tratta di una circostanza che ben si comprende alla luce degli effetti della litis contestatio, e che, comunque, nulla determina in ordine alle sorti della tutela pretoria che l’attore invocasse contro il giudice. Anzi, proprio questa circostanza si rivela suscettibile di specifico apprezzamento nell’eventuale processo instaurato contro il giudice: ove quest’ultimo abbia giudicato con dolo strumentale all’elusione di dati normativi civilistici, e di conseguenza abbia assolto ingiustamente il convenuto, in bonum et aequum egli risponderà verso l’attore per l’equivalente del suo interesse ad avvalersi delle misure esecutive, interesse che evidentemente sarà pari a zero solo ove il convenuto abbia spontaneamente pagato prima dei triginta dies decorrenti dalla condanna per l’esperimento dell’actio iudicati.

Solo in questa prospettiva – ove, ad esempio, il convenuto ingiustamente assolto pagasse spontaneamente dopo i triginta dies, non si può escludere che in bonum et aequum il giudice fosse responsabile per quelle stesse usurae che sarebbero potute conseguire alla res iudicata[94] – l’azione avverso il giudice non trova spazio, nel senso che non agirebbe recte chi non avesse in concreto un danno dalla sentenza ingiusta; ma con evidenza si tratta di un contesto che non l’esclude – almeno a mio parere – in termini di principio.

 

 

7. – Esegesi di D. 12.6.60 pr. 

 

Che quella che sinora ho proposto possa rappresentare una strada percorribile sembra confermato da un altro passo di Paolo:

 

Paul. 3 quaest. D. 12.6.60 pr.: Iulianus verum debitorem post litem contestatam manente adhuc iudicio negabat solventem repetere posse, quia nec absolutus [nec condemnatus] repetere posset: licet enim absolutus sit, natura tamen debitor permanet: similemque esse ei dicit, qui ita promisit, sive navis ex Asia venerit sive non venerit, quia ex una causa alterius solutionis origo proficiscitur.

 

Il giurista riporta, in questo passo tratto dalle Quaestiones, pensiero di Giuliano, l’ultimo, autorevolissimo, esponente del modo di pensare sabiniano.

Non sappiamo se egli ne condividesse gli assunti; sicuramente, l’argomentazione esprime una logica in armonia con quanto abbiamo appena rilevato dall’esame del testo tratto dai libri ad edictum, che presuppone, cioè, l’accoglimento dell’impostazione sabiniana, secondo la quale omnia iudicia absolutoria sunt, incompatibile, come abbiamo visto, con la possibilità che la litis contestatio faccia venir meno del tutto il rapporto obbligatorio principale[95].

Secondo Giuliano, dunque, il verus debitor – vale a dire il debitor convenuto in giudizio in ragione della sussistenza dell’obbligazione – che adempia dopo la litis contestatio e prima della definizione del processo con sentenza non può ripetere il pagamento: e ciò in quanto non potrebbe ripetere l’attribuzione patrimoniale neppure in caso di successiva assoluzione (il riferimento alla condanna mi parrebbe il frutto di un innocuo glossema), ove si consideri che, quantunque assolto, rimane ‘naturalisticamente’ un debitor. Per Giuliano, specificamente, la fattispecie è analoga alla stipulatio apparentemente condizionale sive navis ex Asia venerit sive non venerit, in cui la solutio è sempre irripetibile, quale che sia il contesto eventuale di riferimento, in quanto ex una causa alterius solutionis origo proficiscitur: a parafrasare il discorso del giurista, in altri termini, l’accordo solutorio che sottende l’adempimento nell’uno come nell’altro caso ipotizzato promana sempre e comunque da una sola esigenza pratica, che anima in concreto, ed indistinguibilmente, l’iniziativa solutoria.

Il passo – che, contrariamente a quanto suggeriva il Pugliese, considero sostanzialmente classico[96] – sembra dimostrare quanto abbiamo appena rilevato: la litis contestatio ‘dissolve’, come direbbe Gaio, l’obbligazione principale sub specie della genesi di una ‘Haftung qualificata’, che si connette in chiave processuale con il debito, rimasto inalterato. Ne consegue che l’origo solutionis sorge ex una causa: ad adoperare la terminologia che figura nella parte finale del passo, cioè, in caso di solutio che avvenga dopo la litis contestatio, ed al limite anche dopo un’eventuale assoluzione ingiusta, l’origo solutionis è sempre la stessa, e va ricercata, invariabilmente, nell’esistenza sostanziale del debitum. Per questa ragione il debitore è verus, e resta tale ‘secondo la natura delle cose’: l’accordo solutorio trova il suo fondamento – l’origo solutionis, appunto – nell’esistenza del debito puro, che permane nonostante la litis contestatio la quale, operando in sede processuale, incide solamente sul piano della ‘gestione della responsabilità’ ad esso organicamente connessa prima dell’esercizio dell’azione.

La litis contestatio, in sostanza, incide solamente sulla connessione dell’oportere con la sua coercibilità, mediata dai meccanismi del processo formulare, tant’è vero che, ove l’obbligazione sia garantita da un pignus, quest’ultimo viene meno, a seguito della assoluzione ingiusta, in quanto al creditore, ancorché verus, non è più consentita la soddisfazione coattiva, come risulta bene da

 

Tryph. 8 disp. D. 20.6.13: Si deferente creditore iuravit debitor se dare non oportere, pignus liberatur, quia perinde habetur, atque si iudicio absolutus esset: nam et si a iudice quamvis per iniuriam absolutus sit debitor, tamen pignus liberatur.

 

Preliminarmente, è da dirsi che questa argomentazione va correlata alla circostanza che il pignus sorge geneticamente a garanzia di un’obbligazione coercibile: il caso considerato da Trifonino appare quindi diverso dalla specifica questione inerente alla possibilità o meno di garantire con pignus, sempre geneticamente, un’obbligazione non coercibile[97]; prospettiva, questa, che il nostro passo non conferma né contraddice. Il ragionamento di Trifonino, ad ogni modo, non conferma la lettura riduttiva qui criticata[98]: il giurista afferma unicamente che la ragione del pignus viene meno nell’ipotesi di assoluzione ingiusta in quanto in tal caso è definitivamente preclusa qualsiasi figura di soddisfazione coattiva del credito, ivi compresa quella che conseguisse all’esercizio del ius vendendi, od all’applicazione di un’ipotetica lex commissoria. Ma nulla si chiarisce in ordine alla pretesa impossibilità, per il creditore ed in tale evenienza, di agire adversus iudicem: da questo silenzio, nulla può desumersi sul punto.

Proviamo ora a contestualizzare la responsabilità del giudice privato sub specie dell’assoluzione sostanzialmente ingiusta, alla quale va parificata – quanto alla tutela pretoria – la frustrazione dell’interesse dell’attore conseguente alla nullità della sentenza per difetto di corrispondenza tra il perimetro formulare ed il contenuto della condemnatio.

Innanzitutto, male absolvere in senso sostanziale non significa automaticamente responsabilità penale onoraria: a ritenere classico il passo di Ulpiano, almeno nel III secolo sembrerebbe doversi dire che il male absolvere debba a tal fine implicare il dolo qualificato. In secondo luogo, male absolvere non significa in alcun modo esaurimento definitivo dell’oportere del reus a seguito della litis contestatio: a ragionare diversamente, la causa solvendi sarebbe priva di fondamento esterno – non se ne percepirebbe l’origo, a parafrasare ancora Giuliano – e dovrebbe consentire la condictio indebiti. In quest’ordine di idee, per un verso i passi non dimostrano affatto che l’assoluzione ingiusta, conseguente ad iniuria iudicis, non consentisse la tutela adversus iudicem: la possibilità d’invocarla, ricorrendo evidentemente il presupposto della fraus legi(s), quanto meno rimane questione aperta.

 

 

8. – La responsabilità del iudex privatus ed il viatico verso la responsabilità del iudex’ imperiale

 

Siamo giunti alla conclusione della nostra indagine.

Due sono le fonti imprescindibili per ricostruire il problema del litem suam facere e della responsabilità onoraria del giudice: si tratta di Gai 4.52 e di Ulp. D. 5.1.15 pr.-1. La prima testimonia della responsabilità oggettiva conseguente alla violazione di regole meramente procedurali – alla quale parrebbe da equipararsi, a portare alle sue estreme conseguenze il ragionamento del MacCormack, la sentenza resa contra legem – implicanti nullità della sentenza, in danno dell’attore che ha comunque consumato l’actio, prospettiva, questa, che appare ben nota anche ad Ulpiano alla luce dell’argomentazione conservataci dal papiro di Antinoopolis; la seconda testimonia della responsabilità per dolo giudiziario, qualificato dall’elusione di dati normativi civilistici, che determini una decisione sostanzialmente ingiusta in danno della parte che ha ragione.

Emerge bene, in questo quadro, la ragione della valutazione equitativa prevista nella formula dell’azione avverso il giudice che abbia fatto propria la lite.

È, infatti, la condemnatio formulata in bonum et aequum a consentire di apprezzare il contenuto della responsabilità del giudice sia ove gli sia attribuita in termini oggettivi, avendo violato il perimetro della formula con conseguente nullità del provvedimento, sia ove gli sia imputata in termini soggettivi per aver emesso per dolo qualificato sub specie della fraus legi(s) una sentenza sostanzialmente ingiusta: il litem suam facere, allora, non si collega necessariamente con la nullità della sentenza; semmai, è da dirsi che in tanto sussiste la possibilità di condannare il giudice, in quanto vi siano i presupposti per trasferire in capo a quest’ultimo l’interesse dell’attore a consumare utilmente l’actio nel primo caso, e comunque quello, bilaterale, delle parti ad un decisum che non sovverta la ‘natura delle cose’.

Che non sovverta, cioè, la valenza ‘eterna’[99] dei dati normativi del ius civile, che al giudice non è concesso di eludere.

Un dato appare, peraltro, da evidenziarsi.

La riconduzione del litem suam facere non solo all’ingiustizia procedimentale della sentenza, ma anche – seppure, a quanto pare, soltanto nelle ipotesi di elusione del dato normativo civilistico – al dolo giudiziario rappresenta l’alba di una nuova temperie culturale, in cui la responsabilità del giudice tende ad espandersi in chiave pubblicistica, sino a determinare un’osmosi tra doveri pubblicistici d’ufficio e doveri privatistici di condotta verso le parti, ben evidenziata, di recente, dal Puliatti[100] e dal Lambertini[101]. Dalla responsabilità del iudex privatus, invocabile solo dalle parti ed in chiave puramente patrimoniale, si avvia, in sostanza, un percorso che condurrà progressivamente alle responsabilità del giudice funzionario della cancelleria imperiale giustinianea, esposto non solo alle pretese delle parti, ed ormai licet per imprudentiam, ma anche a tutte quelle che sono proprie del suo rapporto organico con l’ufficio pubblico che rappresenta.

 

 

Abstract

 

Litem suam facere da Adriano ai Severi – The research aims to show how in classical Roman law the liability of iudex privatus is attributed not only owing to procedural violation, but also owing substantial injustice of the sentence. In the first case, the liability is objective; in the second case, the liability is subjective. Specifically the iudex is chargeable with sententiam dicere dolo malo in fraudem legi(s), i.e. with to circumvent the ius civile rules that was not a ius controversum.

 

 



 

[Per la pubblicazione degli articoli della sezione “Tradizione Romana” si è applicato, in maniera rigorosa, il procedimento di peer review. Ogni articolo è stato valutato positivamente da due referees, che hanno operato con il sistema del double-blind].

 

* Di prossima pubblicazione per i tipi della Cedam nel volume Il giudice privato romano. In memoria di A. Burdese, a cura di L. Garofalo.

 

[1] Cfr. l’ampia monografia di R. Scevola, La responsabilità del ‘iudex privatus’, Milano, 2004, 212 ss.

 

[2] R. Scevola, La responsabilità, cit., 241 ss.

 

[3] R. Scevola, La responsabilità, cit., 233 ss.; A. Gómez-Iglesias, Lex Irnitana cap. 91: ‘lis iudici damni sit’, in SDHI, LXXII, 2006, 465 ss.; M. Giusto, Per una storia del ‘litem suam facere’, in SDHI, LXXI, 2005, 459 s. (e, quindi, la successiva conferma della propria impostazione, che consegue all’esame del volume di Scevola, ‘Litem suam facere’. A proposito di una recente monografia, in SDHI, LXXII, 2006, 389 ss.); F. Lamberti, Riflessioni in tema di ‘litem suam facere’, in Labeo, XXXVI, 1990, 232 ss.

 

[4] R. Scevola, La responsabilità, cit., 212 ss.; M. Giusto, Per una storia, cit., 460 s.; F. Lamberti, Riflessioni, cit., 228 ss.

 

[5] Cfr. per tutti A. Guarino, Diritto privato romano, 12ª ed., Napoli, 2001, 230 e nt. 11.7.2, con letteratura.

 

[6] Sviluppo uno spunto di F. De Martino, ‘Litem suam facere’, in BIDR, XCI, 1988 [ma pubbl. 1991], 13.

 

[7] Cfr. R. Scevola, La responsabilità, cit., 203 ss., e specificamente a 205 s. Non diversamente, cfr. F. Lamberti, Riflessioni, cit., 262 s.; F. De Martino, ‘Litem suam facere’, cit., 1 ss., in particolare 33 ss. Diversamente si atteggia la romanistica spagnola, debitrice delle tesi di A. d’Ors, ‘Litem suam facere’, in SDHI, XLVIII, 1982, 371 ss., seguito da J. Paricio, Los cuasidelitos. Observaciones sobre su fondamento historico, Madrid, 1987, 40 ss.; T. Giménez-Candela, Los llamados cuasidelitos, Madrid, 1990, 3 ss.

 

[8] V. Arangio-Ruiz, Istituzioni di diritto romano, 14ª ed., Napoli, 1960, 378. Cfr., sul punto, A. Burdese, Sulla responsabilità del ‘iudex privatus’ nel processo formulare, in Diritto e processo nella esperienza romana. Atti del seminario torinese (4-5 dicembre 1991) in memoria di G. Provera, Torino, 1994, 161; successivamente, Id., Note sulla responsabilità del ‘iudex privatus’, in Studi in onore di L. Mazzarolli, I, Teoria e storia. Diritto amministrativo generale, Padova, 2007, 40 ss., in particolare 42 (si tratta del saggio che conclude la riflessione in materia dell’insigne Maestro: precedentemente, cfr. Id., In margine alla responsabilità del giudice in diritto romano, in ‘Fraterna munera’. Studi in onore di L. Amirante, Salerno, 1998, 53 ss., e Ancora sul ‘iudex qui litem suam facit’, in Erkos. Studi in onore di F. Sartori, Padova, 2003, 21 ss.); cfr. quindi M. Giusto, Per una storia, cit., 457. Per un recente riesame della progressiva individuazione di un contenuto tecnico dell’espressione, cfr. F. Mattioli, Ricerche sulla formazione della categoria dei cosiddetti quasi delitti, Bologna, 2010, 42 ss. e 55 ss.

 

[9] O. Lenel, ‘Palingenesia iuris civilis’, II, Leipzig, 1889, 541. Per lo status quaestionis, rinvio all’informata sintesi di R. Scevola, La responsabilità, cit., 274 ss.

 

[10] A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 176 s.; così, ora, anche F. Mattioli, Ricerche, cit., 23 s.; più genericamente, O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’. Ein Versuch zu seiner Wiederherstellung, 3ª ed., Leipzig, 1927, 216 ss., e B. Kübler, Die Haftung für Verschulden bei kontraktsänlichen und deliktsänlichen Schuldverhältnissen, in ZSS, XXXIX, 1918, 220 ss., pensavano ad una fra le leges limitatrici della responsabilità dei garanti; diversamente, M. Giusto, Per una storia, cit., 464, pensa «al mancato rispetto di un qualunque precetto giuridico», come pure in fin dei conti F. Lamberti, Riflessioni, cit., 224 ss. Per T. Giménez-Candela, Los llamados cuasidelitos, cit., 49 s., la disposizione normativa elusa sarebbe da rintracciarsi nella lex Iulia iudiciorum privatorum.

 

[11] A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 177. Sulla medesima linea si pone, evidentemente, F. Mattioli, Ricerche, cit., 28 ss.

 

[12] R. Scevola, La responsabilità, cit., 249 ss., e 364 ss. Condivisibili, sul punto, i rilievi di A. Burdese, Note, cit., 46 s.

 

[13] Risalente a Ph.E. Huschke, Gaius. Beträge zur Kritik und zum Verständniss seiner Institutionen, Leipzig, 1855, 91 ss.

 

[14] M. Talamanca, ‘Alia causa’ e ‘durior condicio’ come limite dell’obbligazione dell’‘adpromissor’, in Studi in onore di G. Grosso, III, Torino, 1970, 132.

 

[15] P. Frezza, Le garanzie delle obbligazioni. Corso di diritto romano, I, Le garanzie personali, Padova, 1962, 18 s.

 

[16] Su questo punto mi pare che la lettura di M.P. Piazza, ‘Tabulae novae’. Osservazioni sul problema dei debiti negli ultimi decenni della Repubblica, in Atti del II seminario romanistico gardesano, Milano, 1980, 85 ss., sia più convincente di quella suggerita da B. Albanese, Per la storia del ‘creditum’, in AUPA, XXXII, 1971, 102 ss., ribadita – in polemica con l’Autrice – in Rilievi minimi sul ‘credere’ edittale, in Studi in onore di A. Biscardi, I, Milano, 1982, 230 ss., e proclive a considerare espressamente riferibile alle tre figure di adpromissores il dato normativo della lex Cornelia.

 

[17] Cfr. esattamente, da ultimi, M. Varvaro, Per la storia del ‘certum’. Alle radici della categoria delle cose fungibili, Torino, 2008, 142 ss., in particolare 145 s., e A. Saccoccio, ‘Si certum petetur’. Dalla ‘condictio’ dei ‘veteres’ alle ‘condictiones’ giustinianee, Milano, 2002, 46 ss. Per il quadro del problema, cfr. anche M. Talamanca, ‘Alia causa’, cit., 139, nt. 47: per quest’ultimo Autore, sarebbe assorbente la considerazione della priorità cronologica di figure di adpromissio parziaria nella prassi negoziale.

 

[18] Tit. Ulp. 1.1-2, intellegibile con l’integrazione testuale normalmente proposta; cfr. sul punto V. Arangio-Ruiz, Storia del diritto romano7, Napoli, 1957 (rist.: 2006), 138 ss.

 

[19] Cfr. la recente indagine di D. Tuzov, La nullità ‘per legem’ nell’esperienza romana. Un’ipotesi in materia di ‘leges perfectae’, in RIDA III s., LVI, 2009, 155 ss., in particolare a 178, nt. 74, su Gai 3.124 (il saggio è consultabile on line al seguente URL: http://www2.ulg.ac.be/vinitor/rida/2010/10.Tuzov.pdf).

 

[20] La propone O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’, cit., 218.

 

[21] Cfr. O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’, cit., 513.

 

[22] V. Arangio-Ruiz, L’‘exceptio’ in diminuzione della condanna, già in Pubblicazioni della Facoltà di Giurisprudenza della R. Università di Modena, XLV, Modena, 1930, 1 ss., ed ora in Scritti di diritto romano, II, Napoli, 1974, 247 ss., e M. Talamanca, Istituzioni, cit., 323.

 

[23] Cfr. in quest’ordine di idee A. d’Ors-T. Giménez-Candela, Fianza parcial, in RIDA III s., XXX, 1983, 113.

 

[24] E, sul punto, seguo evidentemente la dogmatica di E. Betti, Il concetto di obbligazione dal punto di vista dell’azione, Padova, 1920, 127 ss. (e, quindi, Id., Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1953, 50 ss.

 

[25] M. Talamanca, ‘Alia causa’, cit., 133. Analogamente, J. Triantaphyllopoulos, La législation romaine sur le cautionnement, in RHD, XXXIX, 1961, 516. Su questo problema cfr. ora A. Staffhorts, Die Teilnichtigkeit von Rechtsgeschäften im klassischen römischen Recht, Berlin, 2006, 64 ss.

 

[26] Diversamente A. d’Ors-T. Giménez-Candela, Fianza parcial, cit., 113.

 

[27] In quanto, in tal caso, la problematica sarebbe ricaduta agevolmente nel caso fatto da Gai 4.52, privando di qualsiasi significato teorico e pratico il ragionamento di Ulpiano.

 

[28] Evidenzia l’importanza dell’esegesi sul punto M. Giusto, Per una storia, cit., 465.

 

[29] O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’, cit., 168. La conceptio in factum dell’intentio non doveva discostarsi eccessivamente dal modello leneliano: la concretizzazione del suo contenuto in chiave operazionale doveva, quindi, emergere via via dall’interpretatio, alla cui attività ricostruttiva si deve il riconoscimento delle ipotesi che rientrino nel litem suam facere, e nei relativi presupposti. Pensava, invece, a tre distinte conceptiones verborum F. De Martino, ‘Litem suam fecere’, cit., 33 ss., in particolare 34 s.

 

[30] È irrilevante, a questo punto, se la condemnatio sia al quanti ea res erit o meno: cfr. esattamente A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 175 ss., in particolare 182 s.

 

[31] Lo suppone O.F. Robinson, ‘Iudex qui litem suam fecerit’ explained, in ZSS, CXVI, 1999, 199.

 

[32] A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 179 s.

 

[33] M. Giusto, ‘Litem suam facere’, cit., 401 ss., in particolare 403 ss., contro la posizione di R. Scevola, La responsabilità, cit., 249 ss., e 364 ss., e A. Gómez-Iglesias, Lex Irnitana cap. 91: ‘lis iudici damni sit’, cit., 500 ss.

 

[34] A. Burdese, Note, cit., 54.

 

[35] Che non connetterei necessariamente all’impossibilità di appellare la sentenza formulare, come propone C. de Konninck, ‘Iudex qui litem suam fecit’. La responsabilité quasi-délictuelle du ‘iudex privatus’ dans la procédure formulaire, in ‘Viva vox iuris Romani’. Essays in Honour of J.E. Spruit, edited by L. de Ligt, J. de Ruiter, E. Slob, J.M. Tevel, M. van de Vrugt, L.C. Winkel, Amsterdam, 2002, 85 ss.

 

[36] G. MacCormack, The Liability of the Judge in the Republic and Principate, in ANRW, II.14, Berlin-New York, 1982, 22 ss. Sul punto cfr., tuttavia, criticamente A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 180, nt. 76.

 

[37] Mi riferisco all’argomentazione conservata da Paul. 3 quaest. D. 12.6.60 pr., di cui ci occuperemo ex professo oltre, nel § 7.

 

[38] Cfr. F. Sitzia, Norme imperiali e interpretazioni della prassi, in Il diritto fra scoperta e creazione. Giudici e giuristi nella storia della giustizia civile, a cura di M.G. di Renzo Villata, Napoli, 2003, 285 ss.

 

[39] È la posizione della dottrina maggioritaria: cfr. per tutti A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 180 e nt. 76. Parrebbe ritenere non decisiva la questione F. Mattioli, Ricerche, cit., 25 s.

 

[40] Mi riferisco a F. Lamberti, Riflessioni, cit., 236 ss. e 263 ss., che pure pensa all’alterazione testuale in ordine agli indici sintomatici del dolo giudiziario (ivi, 250 ss.).

 

[41] C.A. Cannata, voce Obbligazioni nel diritto romano, medievale e moderno, in Dig. disc. priv. - Sez. civ., XII, Torino, 1995, 425 s.

 

[42] Cfr. M. Giusto, Per una storia, cit., 466 ss.; connette questa prospettiva con le figure di responsabilità ‘penale disciplinare’ del giudice funzionario imperiale R. Lambertini, Testi e percorsi di diritto romano e tradizione romanistica, Torino, 2010, 214 ss., in particolare 217, 219 e 237. F. Mattioli, Ricerche, cit., 15 ss. e 74 ss., pur mostrando la percezione della distanza che separa la prospettiva classica da quella propria del VI secolo, parrebbe evidenziare più le sinapsi culturali che le cesure, le quali – almeno a mio modo di vedere – emergono con estrema chiarezza nella costruzione dell’imputazione soggettiva del quasi ex maleficio teneri.

 

[43] Cfr. R. Fercia, Criterî di responsabilità dell’‘exercitor’. Modelli culturali dell’attribuzione di rischio e ‘regime’ della nossalità nelle azioni penali ‘in factum contra nautas, caupones et stabularios’, Torino, 2002, 40, nt. 38 e 47, nt. 54.

 

[44] R. Scevola, La responsabilità, cit., 320 ss.

 

[45] A. d’Ors, ‘Litem suam facere’, cit., 368 ss.

 

[46] R. Scevola, La responsabilità, cit., 249 ss., e 364 ss.

 

[47] J.M. Kelly, Roman Litigation, Oxford, 1966, 116 s.; cfr. la critica di R. Scevola, La respomsabilità, cit., 339 ss. Mi pare forse in una certa misura disarmonica la posizione di F. Mattioli, Ricerche, cit., 27 s.: la tendenziale esclusione di una qualche connessione dell’argomentazione ulpianea confluita in D. 5.1.15.1 con il problema dell’ingiustizia sostanziale della sentenza – e, quindi, dell’iniuria iudicis – è, a mio modesto parere, difficilmente compatibile con una lettura che riconduca il frammento ad un’ipotesi in cui il giudice «avesse emesso una sentenza in violazione di una norma sostanziale derivante da una lex publica o, più esattamente, nel caso specifico disattendendone la ratio» (ivi, a 26 s.).

 

[48] L’espressione è di G. Pugliese, Note sull’ingiustizia della sentenza nel diritto romano, in Scritti giuridici scelti, II, Diritto romano, Napoli, 1985, 39 (già in Studi in onore di E. Betti, III, Milano, 1962, 737), ed amplius 37 ss.: in sostanza, nelle fonti emerge l’idea dell’ingiustizia della sentenza in sé considerata. L’ipotesi prospettata, infatti, «era quella del contrasto obbiettivo tra la sentenza e la reale situazione giuridica delle parti, a prescindere da quello che poteva essere stato l’atteggiamento soggettivo del giudice» (cfr. ancora G. Pugliese, Cosa giudicata e sentenza ingiusta nel diritto romano, in Scritti, II, cit., 11, già in Conferenze romanistiche, Milano, 1960, 231).

 

[49] G. MacCormack, The Liability, cit., 22 ss. Sul punto cfr., tuttavia, criticamente A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 180, nt. 76.

 

[50] Paulus l.s. ad l. Cinc. D. 1.3.29: Contra legem facit, qui id facit quod lex prohibet, in fraudem vero, qui salvis verbis legis sententiam eius circumvenit; Ulp. 4 ad ed. D. 1.3.30: Fraus enim legi fit, ubi quod fieri noluit, fieri autem non vetuit, id fit: et quod distat∙htÕn ¢pÕ diano…aj, hoc distat fraus ab eo, quod contra legem fit.

 

[51] M. Bueno Salinas, ‘Fraus legi’: un estudio sobre D. 1.3.29 (Paul. ‘ad leg. Cin.’), in SDHI, LXII, 1996, 139 ss.

 

[52] Cfr. sul punto M. Giusto, Per una storia, cit., 464.

 

[53] Purché, è appena il caso di dirlo, la nullità della sentenza resa contra legem sia tale da frustrare la ragione fondata dell’attore: il che, evidentemente, non nasconde una difficoltà intrinseca di approccio ad una siffatta ipotetica casistica.

 

[54] R. Scevola, La responsabilità, cit., 340 ss.

 

[55] A. Guarino, Diritto privato romano, cit., 972 ss.

 

[56] Cfr. M.F. Cursi, L’eredità dell’‘actio de dolo’ e il problema del danno meramente patrimoniale, Napoli, 2008, 39 ss.

 

[57] G. Pugliese, Note, cit., 50 s.

 

[58] R. Scevola, La responsabilità, cit., 343 ss.

 

[59] Sin qui il testo classico: cfr. G. Pugliese, Note, cit., 58 s.

 

[60] Quanto è riconosciuto anche dalla dottrina che professa l’idea della bilateralità imperfetta: cfr. ad esempio V. Arangio-Ruiz, Il mandato in diritto romano, Napoli, 1949, 84 ss., in particolare 92, 114 ss., e 165 ss.

 

[61] Sicché la mia tendenziale adesione, tra gli Autori che di recente hanno sostenuto la bilateralità delle obbligazioni nel mandato, va alla tesi di S. Randazzo, ‘Mandare’. Radici della doverosità e percorsi consensualistici nell’evoluzione del mandato romano, Milano, 2005, 233 ss., che parla di ‘bilateralità asimmetrica’ connotata da una «dialettica mai sopita, fra unilateralità ‘strutturale’ e bilateralità ‘funzionale’» (Id., op. cit., 245), piuttosto che a quella di S. Viaro, Corrispettività e adempimento nel sistema contrattuale romano, Padova, 2011, 315 ss., e quindi Ead., Il mandato romano tra bilateralità perfetta e imperfetta, in Scambio e gratuità. Confini e contenuti dell’area contrattuale, a cura di L. Garofalo, Padova, 2011, 331 ss.

 

[62] R. Scevola, La responsabilità, cit., 347.

 

[63] R. Scevola, La responsabilità, cit., 347 s.

 

[64] Cfr. F. Lamberti, Riflessioni, cit., 224 ss., in particolare 227 s.

 

[65] A. d’Ors, ‘Litem suam facere’, cit., 377 ss.: l’insigne Autore escludeva la riconducibilità del testo ad Ulpiano, considerandolo fonte interamente glossematica come tale adoperata dai compilatori.

 

[66] Ipotesi che P.B.H. Birks, A New Argument for a Narrow View of ‘Litem suam facere’, in TR, LII, 1984, 384 considera «more theoretical than practical».

 

[67] Item Pomp(onius) scr(ibit), si falso t(utore) a(uctore) male fuerit diffis<s>us dies, ed(ictum) q(ui)d(em) cessare, et iudicem, q(ui)a neq(ue) diffidit neq(ue) s(ententi)am dixit, litem suam fe[cisse videri ……… (ed. V. Arangio-Ruiz, Recensione a The Antinoopolis Papyri, edited with translation and notes by C.H. Roberts, London, 1950, in Iura, II, 1951, 345 e nt. 1).

 

[68] Cfr. da ultimo, per tutti, R. Scevola, La responsabilità, cit., 212 ss.; più cauto F. De Martino, ‘Litem suam facere’, cit., 14 s., che comunque riconosceva nel testo il pensiero ulpianeo.

 

[69] Gai 1.7: Responsa prudentium sunt sententiae et opiniones eorum, quibus permissum est iura condere. quorum omnium si in unum sententiae concurrunt, id, quod ita sentiunt, legis vicem optinet; si vero dissentiunt, iudici licet quam velit sententiam sequi; idque rescripto divi Hadriani significatur.

 

[70] Per il modo di pensare di Giuliano in tema di delicta, cfr. F.P. Casavola, Giuristi adrianei, Napoli, 1980, 39 ss.

 

[71] Ulp. 3 disp. Fragm. Arg. II.b v: … facultatibus tutorum satis ei fieri non potuerit, eamque actionem causa cognita in eos dandam scribit divumque Pium rescripsisse et in heredes eorum itidem causa cognita, quamvis Iulianus in heredem magistratus non putaverit tribuendam actionem, cum idem heredem iudicis, qui litem suam ferisse, teneri existimaverit. Sed utrumque contra est, cum heres magistratus teneatur et iudicis non teneatur(ed. J. Baviera, in FIRA, 2ª a ed., II, 311 s.).

 

[72] Cfr. sul punto F. Mattioli, Ricerche, cit., 65 ss.

 

[73] O. Lenel, Das ‘Edictum perpetuum’, cit., 167 ss., in particolare 169.

 

[74] F. De Martino, ‘Litem suam fecere’, cit., 33 ss., in particolare 34 s.

 

[75] Sicché escludo altresì la possibilità di configurare una pluralità di intentiones – che comunque ridonderebbe in una pluralità di formulae – di volta in volta corrispondenti al factum ritenuto rilevante (cfr. R. Scevola, La responsabilità, cit., 528 ss.). Specificamente è assai inverosimile – anche a collocare i risultati cui perviene Ulpiano in D. 5.1.15.1 a configurazione ‘conclusiva’ del percorso interpretativo delle figure di responsabilità del iudex privatus – che l’azione pretoria abbia ricevuto – magari nei primi anni del III secolo – una specifica conceptio verborum: l’editto giulianeo, infatti, era stato approvato con senatoconsulto, e qualsiasi variazione ad esso successiva avrebbe implicato modificazioni pure da riservarsi a questa specifica fonte; eventuali prescrizioni decretales, normalmente, conseguivano a rescripta od epistulae (cfr. M. Talamanca, Le costituzioni imperiali nel sistema normativo del principato. Il ‘ius extraordinarium’ e la ‘cognitio extra ordinem’, in Aa.Vv., Lineamenti di storia del diritto romano, 2ª ed., sotto la direzione di M. Talamanca, Milano, 1989, 425) di cui non pare si abbia traccia. D’altronde, in D. 5.1.15.1 il giurista elabora appunto uno specifico contenuto del litem suam facere: quanto lascia intendere che fosse comunque la giurisprudenza a stabilire, di volta in volta, quali contesti fossero riferibili all’intentio in factum.

 

[76] A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 183; A. d’Ors, ‘Litem suam facere’, cit., 390 s.; T. Giménez-Candela, Los llamados cuasidelitos, cit., 53 s., più articolata è la posizione di F. De Martino, ‘Litem suam facere’, cit., 33 ss., che ravvisava in queste fattispecie una responsabilità non solo «sostitutiva», ma anche «aggiuntiva».

 

[77] A. Burdese, Note, cit., 54.

 

[78] R. Scevola, La responsabilità, cit., 391 ss.

 

[79] A. Burdese, Sulla responsabilità, cit., 184.

 

[80] Cfr. F. Serrao, Impresa e responsabilità a Roma nell’età commerciale, Pisa, 1989, 183 ss. e 197 ss.

 

[81] T. Giménez-Candela, Los llamados cuasidelitos, cit., 55 ss., in particolare 58. Per A. d’Ors, ‘Litem suam facere’, cit., 381 ss., la fonte sarebbe comunque rimaneggiata, e non consentirebbe di desumere altro se non che l’azione pretoria non sarebbe stata noxalis.

 

[82] M. Giusto, Per una storia, cit., 472 s.

 

[83] Per le quali cfr. la ricostruzione di D. Mantovani, Le formule del processo privato romano, 2ª ed., Padova, 1999, n. 99, 87 s. e nt. 369.

 

[84] R. Scevola, La responsabilità, cit., 349 s.

 

[85] Cfr. R. Fercia, Le obbligazioni naturali, in Trattato delle obbligazioni diretto da L. Garofalo e M. Talamanca, I.3, La struttura e l’adempimento - Obbligazioni senza prestazione e obbligazioni naturali, a cura di L. Garofalo, Padova, 2010, 350 ss.

 

[86] E. Betti, Falsa impostazione della questione storica, dipendente da erronea diagnosi giuridica, in Studi in onore di V. Arangio-Ruiz, IV, Napoli, 1953, 98 ss. (in polemica con la ricostruzione della traditio astratta proposta da P. Voci, ‘Iusta causa traditionis’ e ‘iusta causa usucapionis’, in SDHI, XV, 1949, 141 ss.); già Id., Sul carattere causale della ‘traditio’ classica (a proposito di studi recenti), in Studi in onore di S. Riccobono, IV, Palermo, 1936, 113 ss.

 

[87] Su questo schema, cfr. C.A. Cannata, Corso di istituzioni di diritto romano, I, Torino, 2001, 308 ss., in particolare 310, nt. 195; Id., op. cit., II.1, Torino, 2003, 288 ss.; M. Talamanca, Istituzioni di diritto romano, Milano, 1990, 436 e 636 s.

 

[88] Alla quale, evidentemente, non posso che rinviare: cfr. A. Salomone, ‘Iudicati velut obligatio’. Storia di un dovere giuridico, Napoli, 2007, 207 ss., con letteratura.

 

[89] Cfr. Gai 4.114: mi limito ad un rinvio, per il problema, a D. Liebs, Rechtsschulen und Rechtsunterricht im Prinzipat, in ANRW, II.15, Berlin-New York, 1976, 270; G.L. Falchi, Le controversie tra sabiniani e proculiani, Milano, 1981, 183 ss., con letteratura.

 

[90] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 652.

 

[91] G. Pugliese, Note, cit., 47.

 

[92] Per il riesame di questo problema, sia consentito un rinvio a R. Fercia, Le obbligazioni, cit., 190 ss.

 

[93] R. Scevola, La responsabilità, cit., 350.

 

[94] Cfr. in merito P. De Francisci, Appunti esegetici intorno alle ‘usurae rei iudicatae’, in Saggi romanistici, I, Pavia, 1913, 61 ss.; F. La Rosa, L’‘actio iudicati’ nel diritto romano classico, Milano, 1963, 23 e ss.; G. Cervenca, Contributo allo studio delle ‘usurae’ cd. legali nel diritto romano, Milano, 1969, 173, nt. 297; M. Kaser - K. Hackl, Das römische Zivilprozessrecht2, München, 1996, 287, nt. 29; F. Fasolino, Le ‘usurae rei iudicatae’, in fil…a. Scritti per G. Franciosi, a cura di F.M. d’Ippolito,  II, Napoli, 2007, 75 ss.; A. Salomone, ‘Iudicati velut obligatio’, cit., 14 ss.

 

[95] Sul passo cfr., da ultima, L. di Cintio, ‘Natura debere’. Sull’elaborazione giurisprudenziale romana in tema di obbligazione naturale, Soveria Mannelli, 2009, 167 ss., con altra letteratura.

 

[96] G. Pugliese, Note, cit., 47 s.

 

[97] Cfr. M. Talamanca, Istituzioni, cit., 531.

 

[98] Insiste su questo passo R. Scevola, La responsabilità, cit., 350, ravvisando – nella prospettiva discussa nel precedente paragrafo – una connessione diretta con Paul. D. 12.6.28.

 

[99] Così, esattamente, V. Arangio-Ruiz, Storia, cit., 94. Nello stesso ordine di idee, ora, L. Capogrossi Colognesi, Storia di Roma tra diritto e potere, Bologna, 2009, 121.

 

[100] S. Puliatti, ‘Officium iudicis’ e certezza del diritto in età giustinianea, in Legislazione, cultura giuridica, prassi dell’Impero d’Oriente in età giustinianea tra passato e futuro. Atti del convegno (Modena, 21-22 maggio 1998), a cura di S. Puliatti e A. Sanguinetti, Milano, 2000, 43 ss.

 

[101] R. Lambertini, Sulla responsabilità, cit., 223 ss.