Università
del Molise
SOMMARIO: 1. Premessa. – 2. Sul rapporto fra erus e dominus. – 3. Analisi di alcune
commedie plautine. – 4. Conclusione.
Tra le tematiche di maggiore interesse nella letteratura
romanistica un posto di rilievo è certamente occupato dallo studio dell’origine
e dall’evoluzione del concetto di potere su di un bene. Da sempre la
disponibilità e lo sfruttamento delle res e delle risorse naturali rappresentano uno dei punti
nevralgici nello sviluppo delle dinamiche sociali, e con esse della creazione
ed evoluzione delle norme giuridiche. Nella Roma antica, in ossequio al
principio dell’utilitas
dei rapporti giuridici[1],
si osservò una lenta e progressiva formazione di quella che oggi è la categoria
logico-sistematica della proprietà; tuttavia tale faticoso processo ebbe i suoi
prodromi nelle manifestazioni più antiche di potere sulla res, che risalgono al concetto di
mancipium e potestas[2]
(e di dominium),
e nelle originarie forme di titolarità dei beni[3]:
solo con il tempo si avviò una lenta evoluzione, che avrebbe avuto il suo
culmine nella formazione del concetto di proprietas in tarda età
postclassica. Ciò che appare, prima facie, del tutto evidente è la tendenza delle genti
antiche, peraltro ovvia, a valutare il concetto di potere sulla res come
vincolato alla sua effettiva disponibilità materiale: questa esigenza nasceva
dalla necessità di salvaguardare i beni utili alla sopravvivenza e, in primo
luogo, i beni della familia.
Al riguardo è singolare pensare come la stessa nascita
dell’ordinamento cittadino sembri riflettere l’esigenza di meglio garantire e
tutelare la proprietà dei beni, e con essa la sfera patrimoniale dei singoli
gruppi familiari[4].
Il consortium ercto non cito,
anche leggendo le fonti gaiane[5],
appare l’emblema di un ambiente sociale arcaico permeato da una necessità di
salvaguardia dell’unità politica ed economica della familia, anche nelle sue varie e
più antiche sfaccettature[6].
Tale necessità non implica l’impossibilità della divisione, che pure diviene
probabilmente prassi dopo l’emersione dell’actio familiae erciscundae[7],
ma, in ogni caso, la volontà dei fratres di mantenere vivo il consortium stesso in un legame
giuridico e fiduciario: d’altra parte la stessa fides rappresenta una componente
fondamentale in una società antica che non ha ancora raggiunto i livelli di
complessità economica del III-II secolo a.C., come testimoniato dalle prime
forme di vinculum
di natura “obbligatoria”.
In tal senso è di particolare interesse il dibattito dottrinale
relativo alle forme di esercizio comune o individuale del potere, e alla stessa
possibilità di sfuggire, per quanto riguarda età arcaiche, alla regola del consortium tra fratres. Su
questo problema illustri studiosi hanno avuto modo di esprimere il loro parere,
in particolare verificando i principali istituti di tutela e garanzia della
sfera patrimoniale della Roma antica, alcuni dei quali possono essere
considerati preesistenti al concetto di proprietà stesso, almeno se si
considera quest’ultimo nell’accezione odierna.
Se la proprietà privata assume una tale rilevanza nel mondo
antico, appare fondamentale il rilievo terminologico che la figura del
proprietario ha rivestito nella Roma repubblicana e, in seguito, nei periodi
del c.d. principato e dominato. Valutando il problema superficialmente la
verifica dell’individuazione del termine che individua il proprietario potrebbe
apparire come un esercizio superfluo o fine a se stesso: in realtà la
conoscenza dell’evoluzione delle dinamiche sociali e con esse del cambiamento
di lingua e costumi, potrebbe essere fondamentale nella comprensione della ratio delle fonti
normative e della stessa impalcatura giuridica della Roma classica e
postclassica. Dalle fonti in nostro possesso sembra chiaro che originariamente
il proprietario (o almeno il proprietario dello schiavo) era inquadrato come “erus”:
tuttavia è altrettanto chiaro un passaggio progressivo dal termine “erus” al diverso
“dominus”, che sembra evidenziarsi
maggiormente nel periodo in cui diviene più complessa e variegata la società
romana, cioè nel momento in cui la familia e il “potere
pubblico” iniziano a porsi in rapporti differenti rispetto al passato, con
una predominanza del secondo rispetto alla prima, che pure rimane il vero
fulcro dell’intera società romana. In questo breve contributo si tenterà di
verificare l’effettività e la repentinità del mutamento linguistico e normativo
descritto, partendo da punti di riferimento tratti dal teatro popolare.
Il dominio individuale sembra essere stato una costante nella storia
della Roma degli albori, coesistendo con talune forme di ager publicus che si sono progressivamente
ridotte con il passaggio del tempo[8].
Le origini di Roma sono riconducibili a una vita semplice, basata
sull’agricoltura e sulla pastorizia: leggenda e fonti funerarie ci forniscono
un quadro al tempo stesso sommario ma affascinante del periodo compreso fra l’VIII e il VI secolo a.C. Molti
studi sono stati condotti sulla vita e sull’organizzazione sociale dei tempi
più antichi[9],
caratterizzati dall’esigenza di mantenere ben saldi i rapporti familiari, per
motivi etici ma, prima ancora, di sussistenza. Il patrimonio, forse in origine
coincidente con i beni familiari, non era suddiviso ma si tramandava a tutti i
discendenti, secondo modelli che andarono, con il passare dei secoli, a
costituire aggregati sociali simili alle moderne società commerciali. Il
concetto di praticità e funzionalità dei rapporti nella Roma antica sembra
essere chiaro nei prodromi del moderno diritto di proprietà e in particolar modo
se si valuta l’istituto del mancipium. Se il
vocabolo sembra evidenziare la materiale possibilità di “mantenere il bene
fra le mani”, è Gaio a sciogliere i dubbi circa l’importanza della
questione, affermando che “magna autem differentia est mancipi
res et nec
mancipi”[10].
Anche il medesimo significato originario
di “prendere in mano” deve riconnettersi all’atto formale della mancipatio, se Gaio afferma seccamente che “mancipi vero res sunt, quae per mancipationem ad alium transferentur; unde
etiam mancipi res sunt dictae.
Quod autem velet mancipatio, idem velet
et in iure cessio”[11].
L’originaria stabilità del territorio,
che condusse in origine a una condivisione di terre e beni, venne meno per motivi
prettamente economici: l’emergere di più strati sociali fu conseguenza
dell’espansione economica e territoriale della civitas,
con una progressiva decadenza delle gentes[12].
Come spesso accade valutando istituti giuridici della Roma
dell’antichità, occorre, per una migliore comprensione, soffermarsi sulle
vicende storiche della quotidianità sociale. Intorno al III secolo a.C. Roma si
apprestava a divenire una delle grandi potenze del Mediterraneo[13]:
l’intensificazione dei commerci e l’affermarsi di una politica espansionistica
contribuirono a definire quella che ben presto sarebbe divenuta l’egemonia di
Roma[14].
Tutto ciò ebbe come riflessi pratici, fra le altre cose, l’afflusso di una
notevole manodopera servile, il progressivo formarsi di un “ceto medio” di tipo imprenditoriale e, di conseguenza, l’emergere
di un grosso fermento culturale, in passato forse sconosciuto. Proprio
l’affermarsi di una decisa tendenza all’importazione di manodopera servile[15]
potrebbe essere considerato uno degli elementi che hanno contribuito al
passaggio da “erus”
a “dominus”: se originariamente il
“proprietario” dello schiavo era definito “erus”, nel corso del tempo la
progressiva assimilazione del servo alle altre “res” , derivante probabilmente
anche dalla maggiore presenza di schiavi nella Repubblica e, quindi,
dell’assimilazione di questi ultimi a comuni res, ha eliminato le differenze
anche linguistiche. Il dominium
diviene indifferenziato sui servi anche a livello terminologico, all’interno di
un contesto sociale nel quale l’attività servile era considerata non solo
normale ma fondamentale, tanto nella familia quanto nella vita pubblica[16].
Non sono moltissime le fonti che ci sono pervenute utili alla
verifica di tale fenomeno: un grosso aiuto in questo senso è fornito dai testi
di Plauto, uno dei più grandi commediografi del tempo (siamo a cavallo fra il
III e il II secolo a.C.), da cui si tenterà di prendere le mosse; certamente è
oggetto di dibattito il fatto che tali scritti possano essere considerati punti
di riferimento per il diritto[17],
ma è indubbio che rappresentino lo specchio di una realtà sociale in un preciso
momento storico[18],
e come tale non possono essere sottovalutati, soprattutto considerando la
generalità scarsità di tale tipologia di fonti[19].
Il teatro di Plauto è probabilmente espressione della parte più
povera della cittadinanza romana, nel solco delle stesse origini del
commediografo, che forse raggiunse il successo dopo anni di povertà: sono
frequenti le allusioni alle difficoltà e alle privazioni della schiavitù, e
costanti i tentativi di mettere in ridicolo, facendosi scudo con la commedia,
le abitudini delle classi più agiate della popolazione[20].
All’interno delle commedie qui prese in esame, è singolare verificare
l’alternanza, nella designazione del “padrone”,
dei termini “erus”
e “dominus”, ancora con una
nettissima prevalenza del primo: nei decenni successivi, tuttavia, il passaggio
al nuovo termine sarebbe stato definitivo, accompagnandosi, probabilmente, a
una diversa concezione dei rapporti di titolarità delle res.
L’etimologia del termine dominus
sembra ricondursi alla “domus” e, pertanto, alla signoria sull’abitazione. E’
indubbio che un ruolo centrale nella società dei tempi più antichi era
rivestito dalla proprietà privata sulle res mancipi: in altre parole, semplificando, su tutti i
beni di diretta utilità per la familia. E’ noto che Ulpiano
richiama il termine “erus”
per individuare il proprietario nel testo della lex Aquilia de damno[21],
un plebiscito[22]
fatto votare dal tribuno Aquilio nel III secolo a.C.[23],
in un momento immediatamente precedente (almeno valutando i tempi della
storia!) a quello in cui si affermano le commedie di Plauto e Terenzio. Va
considerato che lo stile dei due commediografi era profondamente differente,
tenuto anche conto della propensione di Plauto a dipingere situazioni
grottesche, in cui emergevano la scaltrezza e la versatilità dei protagonisti,
generando situazioni comiche e movimentate: gli anni in cui l’autore presenta
le sue opere sono forse tra i più importanti nella millenaria storia della Roma
antica.
In una delle prime opere di Plauto[24],
l’Asinaria,
compare ben venti volte il termine “erus”[25],
mentre non è presente il termine “dominus”:
siamo probabilmente in un momento compreso fra il 211 e il 206 a.C.[26].
Invece nell’Amphitruo,
opera di un Plauto più maturo, ricorre ben ventotto volte il termine “erus”[27]
per designare il “padrone”, ma è emblematico che in due casi sia utilizzato il
termine dominus[28].
Nel secondo caso citato è lo stesso padrone che, discorrendo con il suo servo
Sosia, parla di se stesso. L‘Amphitruo è collocabile a livello temporale probabilmente
intorno al 201 a.C. e autorevole dottrina[29]
si dimostra d’accordo con la tesi che possa essere stata scritta e sceneggiata
sull’onda della vittoria dei romani nella seconda guerra punica; la commedia si
caratterizza per una serie di equivoci, prevedendo la presenza degli dèi Giove
e Mercurio, che assumono le sembianze di comuni mortali. Passando all’analisi
di una terza opera plautina, all’interno dell’Aulularia il termine “erus” compare
sedici volte[30],
mentre “dominus” non appare: va
considerato che, come accade per altre opere del commediografo, l’Aulularia ci è
pervenuta con una mancanza che non ci permette di essere certi del finale, ma
ai fini della presente analisi è chiara la tendenza che vede ancora un utilizzo
massiccio del vocabolo “erus”.
Altro esempio molto interessante, anche a livello cronologico, ci è fornito da
una delle commedie della piena maturità di Plauto, le Bacchides: vi è ampio dibattito
in dottrina circa la datazione dell’opera, ma sembrerebbe chiara una
collocazione temporale fra il 191 e il 189 a.C.[31],
pertanto almeno un decennio dopo le commedie già prese in considerazione. Nel
testo[32]
si osserva l’uso in dieci occasioni del termine “erus” mentre ancora non viene utilizzato
“dominus”. Come detto il termine “erus” sembra
essere utilizzato in prevalenza dagli stessi schiavi, per identificare il loro
padrone: nelle commedie di Plauto è esaltata la posizione di subalternità del servus, con tutte
le vessazioni che ne derivavano di conseguenza. Spesso viene amplificata la
condizione disagiata del servus,
evidenziando virtù come l’obbedienza e l’umiltà che dovevano essere proprie
dello schiavo stesso.
Se in Plauto si può osservare questa tendenza, in Terenzio[33],
autore che è collocabile pochi decenni dopo, «in confronto a erus che ricorre cinquantadue volte, dominus è utilizzato in undici circostanze»[34].
Pertanto in pochi decenni emerge già una differenza sostanziale nell’utilizzo
dei due termini, con il vocabolo “dominus”
che inizia a essere impiegato in maniera molto più ampia con il passaggio del
tempo, secondo una linea di tendenza che sembra essere confermata dalle fonti
coeve, ma anche immediatamente successive al periodo storico qui preso in esame. Particolarmente
indicativo in tal senso è che già Catone utilizza unicamente il termine dominus e mai erus[35].
Nei secoli successivi è Gaio all’interno delle Institutiones a offrirci
un’indicazione importante, chiarendo che “erctum enim dominium est,
unde erus dominus dicitur”[36],
laddove si riferisce all’antico consortium ercto non cito.
Dalle considerazioni svolte sembra emergere un quadro nel quale il
passaggio dal termine “erus”
a “dominus” potrebbe essere spiegato
attraverso la lenta e progressiva evoluzione dei concetti di familia e di persona, e con essi di una diversa impostazione dei rapporti di
potere fra pater familias
e dominus. Nell’antichità romana il
potere di diritto che oggi definiamo proprietà era generalmente concepito come
rapporto di natura (o di prioritaria rilevanza) familiare[37],
poiché la vita sociale si concentrava fortemente all’interno dell’aggregato
familiare[38]:
d’altra parte è chiara, come confermato di recente da autorevole dottrina[39],
la «precoce rilevanza della proprietà
privata della terra nell’ordinamento romano, attestata dalla legislazione delle
XII tavole», confermata anche dalla «contestuale
disciplina di una primitiva proprietà agraria». Con il passare del tempo, anche
in coincidenza del lento affermarsi di una nuova giurisprudenza[40]
dalla metà del II secolo a.C. in poi[41],
si diffonde l’utilizzo del termine dominus
anche per riferirsi al proprietario del servus: in questo stesso periodo si evidenzia anche una prima
tendenza a differenziare a livello terminologico anche il potere di diritto (dominium ex iure Quiritium)
dal “potere di fatto” che era
assegnato dal pretore; in questa maniera sembra svolgersi il lento e progressivo
passaggio verso una terminologia che sarà poi consueta e, si può dire,
consolidata certamente nel II secolo d.C., laddove ci conforta la testimonianza
delle Institutiones
gaiane, come richiamato in precedenza. Questo lento
passaggio sembra inserirsi anche nel solco della progressiva evoluzione del
concetto di “persona”[42],
a lungo dibattuto all’interno della dottrina, evidenziandosi la formazione di
una netta linea di demarcazione fra il concetto di homo e quello di servus, con quest’ultimo che viene definitivamente
assimilato ad una res:
si dovrà poi attendere l’affermarsi dei principi cristiani perché possa
consolidarsi nel tempo una diversa concezione della “persona”, e con essa dei diritti dello schiavo[43].
In altre parole il mutamento descritto evidenzia anche una sempre maggiore
influenza della componente economica all’interno del contesto sociale, che
appare lampante in tutto lo svolgersi della millenaria storia di Roma.
[1] Cfr. F.Schulz,
I principi generali del diritto romano,
trad.it. V.Arangio Ruiz,
1946, rist., Firenze, 1995; R.Orestano, Introduzione
allo studio del diritto romano, Bologna, 1987; A.Guarino, Diritto privato romano, XII ed., Napoli, 2001.
[2] Sui rapporti fra manus e potestas nelle fonti gaiane cfr. R.Astolfi, Gaio e la manus
quale potestas, in SDHI, LXXV, 2009, 53-76.
[3] Su tali temi cfr. U.Brasiello, voce Proprietà
(diritto romano), in Nov.Dig.It.,
vol. XIV, in particolare 113-115.
[4] Sul
punto cfr. L.Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei “iura
praediorum” nell’età repubblicana, Milano, 1976.
[5] Cfr. Gai., I., 3.154a, interessante in
particolare laddove afferma che “erctum enim dominium
est, unde erus dominus dicitur”.
[6] Fondamentale sul punto l’analisi condotta da G.Franciosi, Clan gentilizio e strutture monogamiche.
Contributo alla storia della famiglia romana, Napoli, 1999. In particolare,
322, il punto in cui afferma che «la
linea di sviluppo: proprietà privata-eredità-certezza
della prole-monogamia-repressione dell’adulterio
femminile, trova pieno riscontro a livello ideologico nel pensiero filosofico
del mondo antico e, nei fatti, nell’ordinamento storico della famiglia romana,
nonché vasta eco nella letteratura antica e nella mitologia».
[7] Cfr. D.
10.2.1 pr., Gai. 7 ad ed. prov.: “Haec actio proficiscitur e lege duodecim tabularum: namque coheredibus volentibus a communione discedere necessarium videbatur aliquam actionem constitui, qua inter eos res
hereditariae distribuerentur”.
[8] Cfr. L.Capogrossi Colognesi, La città e la sua terra, in Storia
Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. XIII, 263 ss.
[9] All’interno di un’ampia dottrina cfr. F.D’Ippolito, Forme
giuridiche della Roma arcaica, Napoli, 1998; M. Pani, La politica in Roma antica, Urbino, 1999; G.Franciosi, Famiglia
e persone in Roma antica. Dall’età arcaica al principato, Torino, 1995; C.Capogrossi Colognesi, Pagi,
Vici e città nell’Italia preromana, in Scritti
Franciosi, I, Napoli, 2007, 465-478; Id., Per una maggiore conoscenza della storia romana arcaica e delle sue
istituzioni, in Index,
37, 2009, 453-468. Qui l’Autore valuta e commenta le tesi di T.Cornell, The Beginnings of Rome.
[12] Sulla conflittualità nella Roma antica cfr. M.Torelli, Dalle aristocrazie
gentilizie alla nascita della plebe, in Storia Einaudi dei Greci
e dei Romani, vol. XIII, 261, il quale richiama, fra gli altri, A.Bernardi, Patrizi
e plebei nella costituzione della primitiva repubblica romana, in RIL, LXXIX, 1945-46, 15-26; A.Momigliano,
L’ascesa della plebe nella storia arcaica di Roma, in RSI,
LXXIX, 1967, 297-312; P.Frezza,
Secessioni plebee e rivolte servili nella Roma antica, in SDHI,
XLV, 1979, 310-327.
[13] Alle svolte sociali e politiche, come costantemente è accaduto
nella storia, si accompagnano anche trasformazioni sul piano giuridico e, in
particolar modo, alle forme di proprietà. Molto chiaro sul punto L.Capogrossi Colognesi, voce Proprietà (dir.rom.), in E.d.D., vol. XXXVII, 178, laddove afferma che «un punto è però certo e per noi sufficientemente significativo:
che nel corso dei decenni che vanno dall’età della legge Aquilia
alle commedie plautine si verifica un preciso fenomeno […] un preciso
restringersi del precedente ambito di applicazione di erus
a indicare il solo rapporto schiavo-padrone. La signoria su tutti gli altri
beni è ormai esclusivamente indicata con il termine dominus».
[14] Interessante notare come probabilmente fossero presenti già in
tempi molto antichi delle strade commerciali, utili ad un’embrionale forma di
attività di scambio. Sul punto cfr. F.De Martino,
La costituzione della città-stato, in
Storia Einaudi dei Greci e dei Romani,
vol. XIII, 348, in particolare laddove l’A. afferma che «vi sono prove di scambi con popoli dell’area etrusco-laziale,
ma anche con città greche. Già Lugli e poi De Francisci hanno sostenuto che vi erano strade commerciali
fin dal IX-VIII secolo, ma rimane da stabilire in che modo si fossero formate».
[15]
Emblematica anche la suddivisione in Gai., I., 1.9: “Et
quidem summa divisio de
iure personarum haec est, quod omnes homines
aut liberi sunt aut servi”. Sul concetto di persona in
Gaio cfr. U.Agnati,
Persona iuris vocabulum.
Per una interpretazione giuridica di «persona» nelle opere di Gaio, in RDR,
IX, 2009.
[16] Al riguardo interessante A.Watson, Il diritto privato, in Storia
Einaudi dei Greci e dei Romani, vol. XIV, 513, laddove afferma che «sebbene gli schiavi, alla fine della
Repubblica perlomeno, costituissero oltre il 40 per cento della popolazione,
con un peso determinante in ogni settore dell’attività economica, il diritto
degli schiavi era poco sviluppato».
[17] Al riguardo cfr. M.V.Bramante, Patres, filii e filiae, in Diritto e teatro in Grecia e a Roma, E.Cantarella-L.Gagliardi
(a cura di), Milano, 2007, 95 ss. L’A., trattando della rilevanza del teatro di
Plauto come fonte di diritto cita, ex multis, U.E.Paoli, Comici
latini e diritto attico, Milano, 1962; L.Pernard, Le droit romain et le droit grec
dans le théâtre de Plaute et de Térence,
Lyon, 1900, 67; C.S.Tomulescu, La mancipatio
nelle commedie di Plauto, in Labeo, 17, 1971, 284-302; richiama inoltre, 105, il fatto che
«in Plauto il filius familias
è indicato anche come erus oppure dominus per la
circostanza che avrebbe acquistato, alla morte del padre, piena autonomia ,
essendo di regola incapace, durante la vita di quello, del cui mancipium faceva parte, di disporre del patrimonio
familiare»: sul punto si richiamano Plaut., Asin., 309, 672; Capt., 18; Pseud., 492-493.
[18] Ancora, sul punto, cfr. R.Dareste, Le droit romain et le droit grec
dans Plaute, in études d’histoire du droit,
Paris, 1902; E.Costa, Il diritto privato romano nelle commedie di Plauto, Torino, 1890.
[19] Sul punto interessante H.D.Jocelyn, La
poesia scenica, in Storia Einaudi dei
Greci e dei Romani, vol. XV, 607, laddove afferma che «sono giunti fino a
noi i testi integrali di opere comiche di due soli periodi: dal 220 al 184 e
dal 166 al 160. Non ci sono pervenuti invece testi tragici completi».
[20] Tra i vari esempi, un caso interessante è in Plaut., Aulul., 715 e ss.: “opsecro vos ego, mi ausilio, oro obtestor, siti set hominem demonstretis, quis eam abstulerit. Quid est? Quis ridetis? Novi omnes, scio fures esse hic complures, qui
vestitu et creta occultant sese atque sedent quasi sint frugi”. In questo
passo dell’Aulularia Plauto sbeffeggia gli spettatori con le
toghe più lucenti, i più ricchi, per la soddisfazione dei più poveri.
[22] Sulla lex Aquilia e
sulla sua importanza in tema di danno e lesioni patrimoniali, ex multis,
cfr., recente, A.Corbino,
Danno, lesioni patrimoniali e lex Aquilia nell’esperienza romana, in Studi
Franciosi, I, Napoli, 2007, 607-625;
[23] Cfr. D.
9.2.1.1, Ulp.
18 ad ed.: “Quae lex Aquilia plebiscitum est, cum eam Aquilius
tribunus plebis a plebe rogaverit”.
[24] All’interno di una vastissima bibliografia, per un quadro
relativo agli studi su Plauto cfr. F.Bertini, Vent’anni
di studi plautini in Italia, in Boll.St.Lat., 1971, 22 ss.; J.C.Dumont, La stratégie de l’esclave plautinien,
in Rev. ét.
lat., 1966, 182 ss.; G.Monaco,
Qualche considerazione sullo sfondo
politico e sociale del teatro di Plauto, in Dioniso, 1969, 301 ss.; C.Questa, Per la storia del testo di Plauto nell’Umanesimo, Roma, 1968.
[25] Plaut., Asin., Actus
I:
146-147: “
Plaut., Asin., Actus II:
252-253: “Iam diu est factum quom discesti ab
ero atque abiisti ad forum,
igitur inveniundo argento ut fingeres fallaciam”; 256-257: “Serva
erum, cave tu idem faxi salii quod
servi solent, qui ad eri fraudationem
callidum, ingenium gerunt”; 280: “erum in obsidione linquet, inimicum animos auxerit”; 354-355: “si erum vis Damaenetum, quem ego novi,
adduce: argentum non morabor
quin feras”; 356: “Ego me dixi erum adducturum et me domi praesto fore”; 367-368: “Nunc tu abi ad forum ad erum et narra haec
ut nos acturi
sumus: te ex Leonida futurum
esse atriensem Sauream, dum
argentum afferat mercator pro asinis”; 427-430: “Quia triduum hoc unum modo foro opera adsiduam
dedo, dum reperiam qui quaeritet argentum in fenus, hic vos
dormitis interea domi atque erus in hara,
haud aedibus habitat”;
435-436: “Vah, delenire apparas, scio mihi vicarium esse, neque eo esse servom
in aedibus eri qui sit pluris
quam illest”; 484-486: “Quid, verbero?
Ain tu, furcifer? Erum nos fugitare censes? Ei nunciam ad erum, quo vocas, iam
dudum quo volebas”; 499-500: “Etiam
hodie Peripanes Rodo mercator dives absente ero solus mihi talentum argenti
soli adnumeravit et credidit mihi, neque deceptus in eo”.
Plaut., Asin., Actus III:
646: “Vin erum deludi?”;
654-655: “Di te servassint semper, custos
erilis, decus popli, tensaurus copiarum, salus interior corporis amorisque
imperator”; v. 658: “Nolo ego te, qui
erus sis, mihi onus istuc sustinere”; 672-673: “Age, mi Leonida, obsecro, fer amanti ero salutem, redime istoc
beneficio tea b hoc, et tibi eme hunc isto argento”; 684: “Quaeso hercle, Libane, sis erum tuis factis
sospitari, da mihi istas viginti minas, vides me amantem agere”; 702-703: “Perii hercle! Si verum
quidem et decorum erum vehere
servom, inscende”; 714:
“Etiam tu, ere,
istunc amove abs te atque ipse me adsgredire
atque illa sibi quae hic iusserat mihi statuis supplicasque?”.
[26] Sulla datazione della commedia cfr. la puntuale analisi di E.Paratore (a
cura di), in Plauto, Amphitruo-Asinaria-Aulularia-Bacchides,
Roma, 2011, 139-140, il quale ritiene, anche sulla base di altre opinioni, più
probabile l’ipotesi del 211 a.C. come data di prima presentazione dell’opera.
[27] Plaut.,
Amph., Actus I:
242-243: “hoc ubi Amphitruo
erus conspicatus est, illico equites iubet dextera inducere”; 260-261:”post ob virtutem ero Amphitruoni patera
donate aurea est”; 262: “qui Pterela
potitare rex est solitus. Haec sic dicam erae”; 292: “Ibo ut erus quod imperavit Alcumenae nuntiem”; 297-298: “Credo, misericors est: nunc propterea quod
me meus erus fecit ut vigilarem, hic pugnis faciet hodie ut dormiam”; 338: “Ilicet: mandata eri perierunt una et Sosia”;
347: “Huc eo, eri sum servos. Numquid nunc
es certior?”; 356: “Hic, inquam,
habito ego atque horunc servos sum”; 362: “Quis erus est igitur tibi?”; 382: “Quis tibi erust?”; 404-405: “Nonne
hac noctu nostra navis huc ex portu Persico venit, quae me advexit? Nonne me huc erus misit meus?”; 447: “Novi erum,
novi aedis nostras; sane sapio et sentio. Non ego illi optempero quod loquitur.
Pultabo foris”; 452: “Nonne erae meae
nuntiare quod erus meus iussit licet?”; 460-462: “Ibo ad portum atque haec uti sunt facta, ero dicam meo: nisi etiam is
quoque me ignorabit. Quo dille faxit Iuppiter, ut ego hodie raso capite calvos
capiam pilleum”.
Plaut.,
Amph., Actus II:
565: “Tun
me, verbero, audes erum ludificari?”; 571: “Quid mali sum, ere, tua ex re promeritus?”; 578: “Ere, nunc videor tibi locutus esse?”;
585-586: “Salvos domum si rediero. Iam
sequere sis, erum qui ludificas dictis delirantibus, qui quoniam erus quod
imperavit neglexisti persequi, nunc venis etiam ultro inrisum dominum: quae
neque fieri possunt neque fando umquam accepit quisquam profers, carnufex”;
590-591: “Amphitruo, miserruma istaec
miseria est servo bono, apud erum qui vera loquitur, si id vi verum vincitur”;
623-624: “Non soleo ego somniculose eri
imperia persequi. Vigilans vidi,
vigilans nunc ut video, vigilans fabulor, vigilantem ille me iam dudum vigilans
pugnis contudit”.
Plaut., Amph.,
Actus III:
960-961: “proinde eri ut sint, ipse item sit: voltum e volto comparet; tristis sit,
si eri sint tristes; hilarus sit, si gaudeant”; 974-975: “Iam hisce ambo, et servos et era, frustra sunt
duo, qui me Amphitruonem rentur esse: errant probe”; frag. II: “Erus Amphitruo est occupatus”.
Plaut., Amph.,
Actus V:
1061: “Ita erae meae hodie contigit: nam ubi parturit, deos invocate, strepitus,
crepitus, sonitus, tonitrus. Ut subito, ut prope, ut valide tonuit!”;
1075-1076: “Ibo ut conosca, quisquis est.
Amphitruo hic quìdem est erus meus”; 1082: “Agedum expedi: scin me tuom esse
crum Amphitruonem?”.
[28] Plaut., Amph.,
Actus I, 170:”Ipse dominus dives operis, laboris
expers quodquomque homini accidit iubere, posse retur”; Plaut., Amph., Actus II, 587, cfr. nota 11.
[29] Sul punto cfr. E.Paratore (a cura di), in Plauto, Amphitruo-Asinaria-Aulularia-Bacchides,
cit., 40. Ivi l’A. richiama A.De Lorenzi, Cronologia ed evoluzione plautina, Napoli, 1952, 94-95.
[30] Cfr. Plaut., Aulul.,
67: “Noenum mecastor quid ego dicam meo malae rei evenisse
quamve insaniam queo comminisci”; 275: “Quid ego nunc agam? Nunc nobis
prope adest exitium, mi atque erili filiae”; 278: “Ibo intro, ut erus
quae imperavit facta, cum veniat,
sient”; 280: “Postquam obsonavit erus et conduxit
coquos tibicinasque hasce apud forum; 288: “Sed erus nuptias
meus hodie faciet”; 589-593: “Sin
dormitet, ita dormitet, servom sese ut cogitet.
Nam qui amanti ero servitutem
servit, quasi ego servio,
si erum videt superare amorem, hoc servi esse officium reor, ritinere ad salutem, non enim quo incubate o impellere”; 595-599: “Quasi puer qui nare
discunt scirpea induitur ratis, qui laborent minus, facilius ut nent
et moveant manus, eodem modo servom ratem esse amanti ero aequom censeo, ut eum toleret,
ne pessum abeat tamquam * eri ille imperium ediscat, ut quod frons
velit oculi sciant”; 603: “Nunc erus meus
amat filiam huius Euclionis pauperis”; 680: “Quamquam hic manere me erus
sese iusserat; certum est, malam rem potius quaeram cum lucro”; 812: “Hem, erumne ego aspicio meum?”; 820-822: “Ere, mane, eloquar
iam, ausculta. Age ergo
loquele. Repperi hodie,
ere, divitias nimias”;
826: “Abi, ere, scio quam
rem geras”.
[32] Plaut.,
Bacch., 170: “Erilis patria, salve”; 214: “Num invitus rem bene gestam audis eri?”; 232-233: “Inde ego hodie aliquam machinabor machinam, unde aurum efficiam amanti erili filio”; 351-353: “ut amantem erilem copem facerem filium,
ita feci ut auri quantum vellet sumeret, quantum autem lubeat reddere ut reddat patri”; 366-367: “Nunc ibo, erili filio
hanc fabricam dabo super auro amicaque eius inventa Bacchide”; 640b: “Erum maiorem meum
ut ego hodie lusi lepide, ut ludificatust!”; 649-650: “Non mihi isti placent Parmenones, Syri qui duas aut tris minas auferunt eris”; 662-663: “Sed lubet scire
quantum aurum erus sibi dempsit et
quid suo reddidit patri”; 666-667: “Numqui nummi exciderunt, ere, tibi quod sic terram
optuere?”; 905: “Ille est amotus. Sine me (per te, ere, opsecro deos immortalis) ire huc intro ad filium”.
[33] Sul punto cfr. L.Capogrossi
Colognesi, voce Proprietà (dir.rom.), cit., 178: «Nelle commedie di Terenzio esso è ormai in buona parte sostituito
da dominus anche a indicare il
proprietario dello schiavo, almeno nel linguaggio dei liberi. Ormai questo
vocabolo è ridotto solo al parlare degli schiavi, emarginato dal latino già nel
II secolo a.C. dove, dopo Terenzio, sopravviverà solo
come forma poetica». Ivi l’A. si cita: cfr. L.Capogrossi Colognesi, La denominazione degli schiavi e dei padroni nel latino del terzo e del
secondo secolo a.C., in Actes du colloque sur
l’esclavage, Warszawa,
1979, 171 ss.
[34] Cfr. G.Nicosia,
Brevis Dominus, in Studi Franciosi, III, Napoli, 2007, 1848.
L’A. cita sul punto l’approfondita analisi di L.Capogrossi Colognesi, La struttura della proprietà e la formazione dei iura
praediorum nell’età repubblicana, 1, Milano, 1969.
Ivi si fa, inoltre, notare come nell’intera produzione conosciuta di Plauto il
termine erus
ricorre 368 volte a differenza del termine dominus
impiegato solamente 41 volte.
[37] Già vi
è stata occasione di verificare le opinioni sui principali istituti di tutela e
garanzia della sfera patrimoniale della Roma antica. Cfr. F.Beer, La conservazione del patrimonio familiare nella Roma antica: antiche
tendenze ed attuali prospettive, Napoli, in corso di pubblicazione.
[38] Sui rapporti fra familia e nascita dell’ordinamento “statuale” cfr., recente,
G.Valditara,
La familia
all’origine della civitas: le basi della libertà dei
romani, in Studi Labruna,
Napoli, 2007, 5747-5765: ivi l’A. richiama, fondamentali, G.Grosso, Le idee fondamentali del diritto romano, Torino, 1968, 104 ss.; E.Meyer, Römischer Staat und Staatsgedanke, München-Zürich,
1961, 171 e ss.; M.Kaser,
La famiglia romana arcaica, in Conferenze romanistiche, I, Milano,
1960, 39 ss.; P.Voci,
Esame delle tesi del Bonfante
sulla famiglia arcaica, in Studi Arangio-Ruiz, Napoli, 1953, 101 ss.; Id., Qualche osservazione sulla famiglia romana arcaica, in SDHI, 19, 1953, 307 ss.; G.I. Luzzatto, Le organizzazioni preciviche e lo Stato,
Modena, 1948, 1 ss.; P.Bonfante,
Corso di diritto romano, I, Diritto di famiglia, Milano, 1925, rist.
1963, 7 ss.
[39] Cfr. L.Capogrossi Colognesi, Le radici storiche della “lex Licinia de modo agrorum”, in Studi Labruna,
II, Napoli, 2007, 682.
[40] Sul c.d. duplex dominium e sull’importanza della giurisprudenza romana
sull’evoluzione del concetto di proprietà cfr. B.Biscotti, Ancora sulla proprietà in diritto romano, in Index, 36, 2008, 185-209.
[41] Sui rapporti fra la giurisprudenza classica ed età imperiale cfr.
M.G.Zoz,
A proposito dei rapporti fra
giurisprudenza classica e legislazione imperiale, in Studi Franciosi, IV, Napoli, 2007,
2877-2905.
[42] Sul concetto di persona nella storia della Roma antica cfr. O.Bucci, Una introduzione storico-giuridica alla
civiltà greco-romano-giudaico-cristiana, Roman,
2006; S.Tafaro,
Diritto e persona: centralità dell’uomo,
in Diritto@Storia,
vol. 5, 2006; F.Beer,
Famiglia romana e individuazione del valore di persona nel suo ambito,
in Person and Family, S.Tafaro-O.Bucci-F.Lempa
(a cura di), Taranto-Warszawa, 2009, 319-331; sul
concetto di persona all’interno della familia romana cfr. S.Tafaro, Riflessioni su familia e societas humana, in Scritti Franciosi,
IV, Napoli, 2007, 2542-2543; Id.,
Diritto romano: un diritto per la persona,
in Index,
34, 2006, 99-110.
[43] Una diversa concezione della persona fondata anche su un diverso
approccio nei rapporti fra i popoli, rispetto a quello predicato della
cristianità: alla cultura dell’intimidazione si sostituisce quella del dialogo
e dell’integrazione. Sul punto cfr. O.Bucci, Gesù il
Legislatore. Un contributo alla formazione del patrimonio storico-giuridico
della Chiesa nel I millennio cristiano, Roma, 2011, 298.