La alternativa attuale tra i binomi
istituzionali: “persona giuridica e rappresentanza” e
“società e articolazione dell’iter di formazione della volontà”. Una ìpo-tesi
(mendeleeviana)[1]
Università
di Sassari
Sommario: 0. Premessa. Una riflessione romanistica su una
questione “gegenwärtig”. – 1. La
questione della “persona giuridica” e della
“rappresentanza”: i termini. – 2. Stato
insoddisfacente della dottrina (anche) romanistica: continuità ed
evoluzione dell’istituto “persona giuridica” e
dell’istituto “rappresentanza” dal Diritto romano al Diritto
contemporaneo. – 3. Un’altra
prospettiva: due soluzioni opposte, medievale-moderna (binomio ‘persona
giuridica e rappresentanza’) e romana (binomio ‘società e
articolazione dell’iter di
formazione della volontà’), per la soluzione del problema della
concezione e del regime unitari dell’agire volontario di una
pluralità di uomini. – 4.
Binomio ‘persona giuridica e rappresentanza’. – 4.a. Sorgere contestuale nel secolo XIII e relazione
simbiotica delle categorie di “persona giuridica” e di
“rappresentanza”. – 4.b. La
persona giuridica astratta si concepisce in forza della rappresentanza /
sostituzione della volontà. – 4.c. La
rappresentanza / sostituzione della volontà si concepisce in funzione
della persona giuridica astratta. – 4.d. Sviluppi gius-pubblicistici
medievali-moderni e gius-privatistici contemporanei. – 5. Binomio ‘società e articolazione
dell’iter di formazione della
volontà’. – 5.a. Societas:
comunità concreta. – 5.b. Articolazione e complementarietà di
contenuti e di titolari dell’iter
di formazione della volontà. – 5.c. Schema
potestativo e origine familiare. – 5.d. Elaborazione societaria. – 5.e. Sviluppi societari. – 6. Contrapposizione tra orientamenti
‘politici’: la logica feudale dell’obbligo ad avere un
‘capo’, realizzata (per mezzo del pactum subiectionis)
nella persona giuridica rappresentata, contro la logica repubblicana del
potere popolare, realizzata nel contratto di società. – 7. Contrapposizione tra ‘visioni del
mondo’: conflitto contro collaborazione, come condizione
“naturale” umana. – Bibliografia
utilizzata.
In quanto giuristi, dobbiamo interessarci di questioni del
presente (Koschaker, 1952) (che possiamo comprendere
soltanto se le esaminiamo considerando egualmente entrambe le posizioni di
studio del diritto: pubblico e privato).
Da qualche tempo (Lobrano, 2003), con il collega Pietro Onida (Onida, 2003-2011) e, quindi, con la collaborazione – di rilevanza istituzionale – del collega Laurent Hecketsweiler della Université de Montpellier (Accordo di cooperazione interuniversitario, 2010)[2], abbiamo avviato, nella linea della comune ‘scuola’ (Catalano, 1974; 1983/1990), una riflessione/ricerca, sviluppata in parallelo e con frequenti scambi di opinioni, sulla questione della criticità degli istituti gius-positivi di persona giuridica e rappresentanza e sulla possibilità di individuare e definire istituti gius-romanistici alternativi.
Tale
riflessione/ricerca è – oramai – più che una
‘ipotesi di lavoro’, anche se, per la maturazione della
‘tesi’ (nella sequenza di necessari, reciproci rinvii tra
costruzione sistematica e ri-costruzioni puntuali), sono ancora in corso
verifiche dei suoi numerosi elementi. Nella presente esposizione schematica,
parliamo – dunque – di una ‘ìpo-tesi’
(mendeleeviana).
Nel
1934, Ernst Rabel, fondatore e primo direttore del Max-Planck-Institut
für Ausländisches und Internationales Privatrecht di Hamburg,
aveva definito la “rappresentanza” un “juridisches
Wunder”. Nel 1974, Hasso Hofmann, nella “Einleitung” a una tra le
più note monografie sulla rappresentanza, Repräsentation: Studien zur Wort und Begriffsgeschichte bis ins
19. Jahrhundert, scrive che nella dottrina giuridica tedesca
contemporanea «steht die Bedeutsamkeit dieser Kategorie auβer Frage».
Nel
1969, il processual-civilista Salvatore Satta (famoso anche per una
fortunatissima opera letteraria: Il
giorno del giudizio, 1977 [postuma]) aveva definito la
“personalità giuridica”: “«immenso fenomeno»
e «stupenda creazione umana». Nel 2005, il costituzionalista Gianni
Ferrara scrive che la “persona giuridica” è «la password di accesso alla dimensione del
giuridico».
La
scienza gius-privatistica ha all’‘ordine del giorno’ il tema
della “crisi della persona giuridica” e cerca – in
alternativa – di recuperare la “corporazione” (Corrêa
de Oliveira, 1979; Nathalie Baruchel, 2004; Serra, 2005).
La
scienza costituzionale è arrivata alla conclusione che la
“rappresentanza” politica è una parola vuota, una categoria
senza consistenza, uno pseudo-concetto e cerca – in alternativa –
di recuperare la “partecipazione” (Lobrano, 2006).
In mancanza di alternativa, il risultato è il
“blocage théorique”: «La philosophie politique
récente n’est pas restée prisonnière de cette
approche ‘représentative’ de la démocratie. [...]
L’idée émerge, tant dans les transformations qui affectent
la réalité de nos sociétés que dans la pensée
politique de la démocratie, d’un nécessaire renforcement des formes de participation
des citoyens à l'exercice du
pouvoir. Mais le terme reste souvent vague. De plus, même
là où l’analyse se fait plus fine, l’exigence que ce
terme dénote reste plus de l’ordre de la boîte noire que
d’une opération théoriquement construite. Ce défaut
de construction théorique explique ce que nous identifions comme un
blocage.» (Lenoble et Maesschalk, 2009)[3].
Come
cercheremo di spiegare, i fenomeni della ascesa e della crisi di ‘persona
giuridica e di rappresentanza’– nonostante la prassi scientifica
delle trattazioni separate – sono aspetti di una questione giuridica
unica, la quale investe tanto il diritto privato quanto il diritto pubblico e
può/deve essere utilmente affrontata con gli strumenti del Diritto
romano.
La prima osservazione
è una constatazione. Lo stato odierno della dottrina romanistica non
consente di affrontare la questione della ascesa e della crisi di persona
giuridica e di rappresentanza perché essa stessa ne è
all’interno.
Presso
tale dottrina, infatti, sono tuttora correnti le affermazioni della sostanziale
omogeneità/continuità romanistica: sia dell’istituto
moderno della persona giuridica (in continuità con l’istituto
romano della societas, in quanto
quest’ultima è in grado di relazionarsi unitariamente ad altri
uomini singoli o a collettività di uomini); sia dell’istituto
moderno della rappresentanza (in continuità con l’istituto romano
di relazione negoziale attraverso uno o più agenti).
Come
i germi estranei presenti nella chirurgia pre-pasteuriana, nei manuali di
‘istituzioni di diritto romano’ è, di regola, presente una
sezione dedicata alle “persone giuridiche”, dove è trattata
‘tale’ societas, e nella
letteratura romanistica è comune la interpretazione delle cosiddette actiones adiecticiae qualitatis
attraverso la categoria della “rappresentanza diretta”.
Dobbiamo,
inoltre, parlare di affermazioni (al plurale) e non di affermazione (al
singolare) da parte della dottrina romanistica odierna a proposito degli
istituti della persona giuridica e della rappresentanza, perché essa non
soltanto distingue i due istituti ma anche li separa, cioè li tratta
indipendentemente l’uno dall’altro in quanto li considera
indipendenti l’uno dall’altro. Tale ‘separazione’
costituisce essa pure una insoddisfacente caratteristica dello stato della
dottrina (vedi § seguente).
Ulteriore
insoddisfacente caratteristica (sebbene oramai in regressione) della dottrina
è la ulteriore separazione (anche in questa materia) tra la posizione di
studio del diritto privato e la posizione di studio del diritto pubblico (cui
si connette lo studio non-giuridico del diritto pubblico romano, come
evidenziato dallo stato dei manuali [e non soltanto] di “storia del
diritto romano”).
Tutte
queste ‘caratteristiche’ non sono evidentemente specifiche della
dottrina romanistica, anzi la allineano (ovvero sono manifestazioni del suo
allineamento) all’id quod plerumque
docuitur da parte della generale scienza giuridica contemporanea, di
matrice cosiddetta ‘occidentale’ ma che (per ragioni e storiche e
dogmatiche) sarebbe più esatto dire ‘borghese’ (vedi, infra, § 4d).
Fa
eccezione la tesi formulata da Pierangelo Catalano in Populus Romanus Quirites
(1974) e ripresa in Diritto e persone
(1993/1990). Contro lo stato della
dottrina, in particolare contro le tesi di Theodor Mommsen (1886 e 1893),
secondo cui: «Populus ist der
Staat» perché «das römische Staatsrecht […] vie
alles Recht den Staat voraussetzt» e i magistrati ne sono i
“Repräsentanten” o “Vertreter”, Catalano sostiene
che il populus: non è uno
“Stato” perché non è una “persona
giuridica” e non si esprime mediante “rappresentanza”.
La
seconda osservazione è precisamente la prima formulazione della
‘ìpo-tesi’ (annunciata in “Premessa”) della
presenza, presso il Diritto romano, di una risposta alla questione attuale
delle ascesa e crisi di “persona giuridica” e
“rappresentanza” e della obbligazione corrispondente, da parte
della scienza giuridica romanistica, a individuare e a rendere disponibile tale
risposta.
Crediamo,
infatti, non soltanto che nella esperienza giuridica romana mai si sia fatto
ricorso agli istituti medievali-moderni di “persona giuridica” e di
“rappresentanza” ma anche che – in luogo di essi –
siano stati prodotti e utilizzati istituti totalmente altri (e attuali). Questi
istituti sono la societas e il
corrispondente modus operandi, il
quale modus definiamo di
‘articolazione dell’iter
di formazione-manifestazione della volontà’.
Le
categorie/istituti “persona giuridica” e
“rappresentanza” costituiscono un ‘binomio’ il quale
è (ovverossia: è stato e resta) soltanto una soluzione
storica-dogmatica del problema di base e complesso del diritto che è la
concezione e il regime (cioè la “struttura” e la
“dinamica”) unitari
dell’agire volontario di una pluralità
di uomini: la soluzione storica-dogmatica altra
è (è stata e resta) l’antitetico ‘binomio’
istituzionale che definiamo “società e articolazione dell’iter di formazione della
volontà”.
La
parzialmente nota soluzione medievale-moderna (gius-canonistica ma anche e
soprattutto feudale/parlamentare) del ‘binomio’ ‘persona
giuridica e rappresentanza’ è divenuta in epoca contemporanea
assolutamente dominante ma oggi è entrata in crisi.
La
sostanzialmente ignota soluzione antica (gius-romanistica) del
‘binomio’ ‘società e articolazione dell’iter di formazione della
volontà’, cioè di scomposizione/ricomposizione
dell’atto giuridico, è stata suo tempo altrettanto dominante (sul
ruolo della societas: Cicerone, rep. 1.39; cfr. 1.49; 6.13; 1.41 e 5.1;
off. 1.50-60; in part. § 53),
è stata in epoca contemporanea ‘programmaticamente’
stravolta (Friedrich Carl von Savigny [vedi, infra, § 4d]; Theodor Mommsen [vedi § precedente]) ma
oggi è risorgente almeno nei ‘fatti’ (Lobrano, 2007).
Tra
le due soluzioni vi sono contaminazioni (tutte, ovviamente, medievali-moderne)
le quali consistono sia nella utilizzazione procustiana della soluzione
antica/societaria per la costruzione della soluzione medievale-moderna (in
particolare della persona giuridica: la “corporazione”) sia,
quindi, a livello di conoscenza, nella sovrapposizione di questa ultima
soluzione (per intero, compreso il proprio modus
operandi: la rappresentanza)
sulla soluzione antica.
Le
contaminazioni rendono difficile la conoscenza della soluzione antica e la
comprensione della specificità della stessa soluzione medievale-moderna.
Tali contaminazioni non scalfiscono, però, la essenziale alterità
delle due soluzioni, la quale è espressione specifica di una
alterità generale tra due culture e due logiche, e si manifesta non
soltanto sul piano tecnico degli istituti giuridici, in cui quelle soluzioni si
sostanziano, ma anche sul piano ‘politico’ della titolarità
e della gestione del potere collettivo, cui quegli istituti tendono, e sul
piano ideologico della ‘visione del mondo’, ovverossia della
concezione della natura degli uomini e delle loro relazioni, da cui quegli
istituti sono sottesi.
Possiamo
così schematizzare la diversificazione della nostra riflessione/ricerca
rispetto allo stato della dottrina:
– affermazione della
discontinuità, in questa materia, tra esperienza giuridica
medievale-moderna ed esperienza antica giuridica, in luogo della affermazione
della continuità;
– considerazione
complessiva delle categorie/istituti di persona giuridica e rappresentanza, in
luogo delle loro considerazioni separate/indipendenti,;
– considerazione
complessiva della relazione tra persona giuridica e societas e della relazione tra la rappresentanza e il modus operandi della societas, in luogo delle loro
considerazioni separate/indipendenti;
– individuazione della
unità collettiva concreta della societas, in luogo della sua riconduzione alla
unità astratta della persona giuridica;
– individuazione di uno
specifico modus operandi societario
(articolazione dell’iter di
formazione della volontà), in luogo della sua riconduzione alla
sostituzione della volontà della rappresentanza;
– individuazione del
nesso tra soluzioni giuridiche e orientamenti politici e giustificazioni
ideologiche, in luogo del disinteresse per questo nesso;
(– considerazione complessiva
[anche] di questa materia da entrambe le posizione di studio [di ius publicum e di ius privatum], in luogo delle sue considerazioni
separate/indipendenti).
La
nostra ìpo-tesi, per affermare la discontinuità, ovverossia la
disomogeneità sostanziale, il salto logico tra la soluzione antica e la
soluzione medievale-moderna nonché – quindi – per
ri-costruirne le due diverse (cioè alternative, contrapposte)
fisionomie, parte dalla osservazione-interpretazione di due ‘dati’
storici-dogmatici (in sé incontroversi ma sotto-valutati o non
adeguatamente valutati) concernenti i due istituti in cui la soluzione
medievale-moderna si sostanzia e che ci appaiono non consentire le
‘separazioni’ dalle quali l’approccio scientifico
contemporaneo è, invece, caratterizzato (vedi § precedente).
Il
primo ‘dato’ storico-dogmatico è la novità del
sorgere, durante il secolo XIII (ad opera, come si dice correntemente, di giuristi
di Diritto canonico nonché, ricordiamo, in contesto feudale, delle
categorie di persona giuridica e di rappresentanza. Il canonista cui si
attribuisce la formula della persona ficta
vel/et repraesentata è
Sinibaldo dei Fieschi (Papa Innocenzo IV, † 1254) seppure con
‘precedenti’ nella convocazione del Concilio Laterano del 1215 ad
opera di Innocenzo III e del
Capitolo generale dei Domenicani a Bologna nel 1220 (Barker, 1913).
Le
categorie di persona giuridica (ficta)
e rappresentata sorgono, dunque, più che contestualmente, come parti di
un vero e proprio unicum, il quale si
definisce concettualmente come ‘bi-nomio’ nella progressiva messa a
fuoco / distinzione tra le due inter-dipendenti ‘qualità’
della nuova “persona”.
Da
tale dato (ben noto: Thomas, 2005) discendono due conseguenze, tenute –
di regola – in assai scarsa considerazione: α) che le due categorie
di persona ficta e di rappresentanza,
in quanto elementi costitutivi, di una costruzione unica, hanno senso soltanto
nella reciproca relazione di complementarietà; β) che, prima del
secolo XIII, alla questione della considerazione e del regime unitari
dell’agire di una pluralità di uomini doveva darsi – e si
dava – una soluzione altra.
Ad
esempio (tra gli innumerevoli) di tale non-considerazione, ricordiamo –
proprio perché pregevole – la voce “Rappresentanza (diritto
intermedio)” della EdD
(Cappellini, 1987) ove non soltanto non ci si sofferma al proposito ma neppure
si osserva che i primi usi della locuzione personam
repraesentare (ad opera di Bartolo di Sassoferrato e – del di lui
allievo – Baldo degli Ubaldi) compaiono soltanto dopo la innovazione sinibaldiana della persona ficta vel/et
repraesentata.
La,
invece, adeguata considerazione-interpretazione di tali ‘conseguenze’
deve condurci: α) ad affermare la relazione più che stretta,
simbiotica tra le categorie e gli istituti “persona giuridica” e
“rappresentanza” e, quindi, a ri-costruire: sia il corposo (anzi,
come suole dirsi, ‘pregnante’) significato della espressione e la
essenza della ‘cosa’ “persona giuridica”,
rispettivamente rivelato e consentita dal suo essere
“rappresentata”; sia il corposo/‘pregnante’ significato
della parola e la essenza della ‘cosa’
“rappresentanza”, discendenti dal suo rapporto genetico di funzionalità
con la persona giuridica; β) ad affermare il carattere innovativo della
comparsa della persona ficta vel/et repraesentata e, quindi, a
ri-costruire la diversa soluzione precedente.
L’elemento
primo e determinante dei significato/essenza della “persona
giuridica” è, dunque, la sua ipostatizzazione come ente astratto: non soltanto
‘altro’ rispetto ai singoli uomini integranti la
collettività umana (di cui esprime la unità in maniera affatto
specifica [Ferrara, 1915]) ma anche e soprattutto “sostitutivo”
della stessa collettività unitariamente intesa, la quale –
pertanto – giuridicamente ‘scompare’ (vedi, supra, § 2; cfr. Zatti, 1975).
In
questa ipòstasi astratta
risiedono la novità assoluta e la differenza sostanziale rispetto alla
esperienza giuridica romana. La parola ‘persona’ (in riferimento sia ad un uomo sia ad una
collettività di uomini, in quanto svolgenti attività rilevanti
per il diritto) non è certamente estranea alla esperienza
gius-romanistica, da cui anzi notoriamente proviene [in proposito,
recentemente: Corbino - Humbert - Negri, 2010]. Con la persona ficta (vel/et repraesentata) di Sinibaldo siamo,
però, di fronte ad un vero e proprio salto logico nell’uso della
categoria e, quindi, dell’istituto ‘persona’: da ‘ruolo’ giuridico di uomini o di
collettività umane a ‘ente’ e ‘soggetto’ che, in
riferimento alle collettività, diviene ‘astratto’. Possiamo, forse, riconoscere tale ‘salto
logico’ nel salto semantico dall’“avere persona”
ricorrente nello ius publicum e nello
ius privatum romani (Cod.Just. 3.6 rubr.; 5.34.11; Nov.Theod. 17.1.2)
all’“essere persona” del diritto pubblico e privato
medievale-moderno e soprattutto contemporaneo (vedi anche, infra, § 4d).
La
novità assoluta medievale-moderna della alterità/ipostasi della
astratta persona ficta (e poi artificialis/künstlich: vedi
ancora, infra, § 4d) rispetto
agli uomini (soltanto ora, simmetricamente: “persone fisiche”
[vedi, supra, § 2]) si manifesta
ed è riconoscibile proprio nella necessità/possibilità di
una “rappresentanza della volontà”: in quanto
“sostitutiva” (vedi § seguente) della volontà della persona ficta e non integrativa/complementare
della volontà della collettività di uomini che dalla persona ficta è stata
corrispondentemente ‘sostituita’.
Specularmente,
l’elemento primo e determinante dei significato/identità della
“rappresentanza” (e che – secondo la nostra ìpo-tesi
– sopravvive a- e si mantiene in tutte le – successive –
specificazioni interne di questa, fondamentalmente: la “rappresentanza
istituzionale” [od “organica”, ivi quella
“politica”] e la “rappresentanza volontaria”) ci appare
la monoliticità del processo decisionale, connesso alla sua funzione:
necessariamente “sostitutiva” della persona ficta. L’iter
di formazione della volontà è (e non può che essere) la
formazione/manifestazione della volontà esclusiva della ‘persona
fisica rappresentante della persona giuridica’. In altri termini, la
‘rappresentanza’, anche quando si rende autonoma dalla persona ficta, per porre in relazione
tra loro ‘persone fisiche’, conserva la impronta genetica della
monoliticità dell’iter
di formazione della volontà (cioè dell’‘atto
giuridico’) in capo alla ‘persona fisica rappresentante’;
ragione per cui la dottrina – correntemente e giustamente – insegna
a proposito anche della cosiddetta “rappresentanza volontaria”
trattarsi non di “cooperazione” tra due volontà ma di
“sostituzione” della volontà del titolare del diritto con la
volontà del rappresentante (D’Amico, 1991).
La
impronta genetica della monoliticità/sostituzione della volontà
nella rappresentanza (e la ‘conservazione’ di tale impronta,
nonostante le sopravvenute diversificazioni interne della rappresentanza) si
manifesta conclusivamente (in un – soltanto apparentemente paradossale
– gioco di specchi) nella – eventuale – fase processuale del
contenzioso: quando il terzo agisce comunque e sempre nei confronti di un solo
convenuto: il rappresentato. E’ stato, infatti e ancora giustamente,
osservato che l’elemento conclusivo della “rappresentanza”
è la eliminazione della responsabilità del rappresentante per i
contratti da lui compiuti in nome del rappresentato, ciò che si trova
soltanto a partire dallo ius commune (Wacke,
1997).
Il
secondo ‘dato’ (noto, almeno in forma oggettiva) è la
applicazione e lo sviluppo immediati di tale ‘unicum’ concettuale e istituzionale nei primi Parlamenti
d’Inghilterra (ove i Domenicani si insediano, ad Oxford, già nel
1221) aperti alla partecipazione dei “Comuni”, cioè delle Città
(Clarke Maude, 1936): il Parlamento ‘ribelle’ convocato nel 1265 da
Simone de Montfort e, quindi, il “Parlamento modello” convocato nel
1295 dal re Edoardo I. Nella redazione del ‘Bill’ di convocazione,
viene inserita la clausola della «plenam et sufficientem potestatem pro
se et communitate» da parte dei rappresentanti dei Comuni. Da questa
clausola (giunta praticamente invariata sino a noi [vedi, ad es., l’art.
67 della Costituzione italiana «Ogni membro del Parlamento rappresenta la
Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato.»] ma
inconcepibile senza il supporto della nuova dottrina della persona ficta vel/et
repraesentata e, infatti, non concepita nel secolo precedente della storia
parlamentare, in particolare in Spagna e Francia) di-pende (attraverso un lungo
percorso ugualmente noto) anche la lucidissima e quodam modo definitiva teorizzazione, da parte dell’inglese
Thomas Hobbes, dello Stato (il gigante “Leviathan” [1651]) persona artificialis e (pertanto) repraesentata (Lobrano, 1994-96; cfr., infra, § 6).
Anche
il secondo ‘dato’ è tanto noto quanto, di regola, tenuto in
assai scarsa considerazione. Presso la già citata monografia sulla
categorie di rappresentanza, redatta da Hasso Hofmann, ove pure si dedica
grande attenzione al diritto pubblico, questo ‘dato’ è
‘ignorato’ (cfr. Zanon, 1991). Eppure, è proprio nella linea
di sviluppo inglese/parlamentare che il nuovo meccanismo della persona
giuridica e della rappresentanza trova il terreno più fertile e
l’ambiente più adatto per crescere e, realmente, cresce, come
appunto dimostra il passaggio/crescita dalla categoria di persona ficta di Sinibaldo alla categoria di persona artificialis di Hobbes, il quale anticipa Savigny di due
secoli.
In
effetti, nel campo del diritto privato, lo sviluppo della categoria di persona
giuridica appare decisamente più tardo e nel solco di quello già
effettuato nell’àmbito gius-pubblicistico/parlamentare
anglosassone. Occorre attendere, nel secolo XIX, il contributo di Friedrich Carl von Savigny (e del suo collega-discepolo
Georg Arnold Heise, cui pare si debba il neologismo “iuristische
Person” [Gliozzi, 1996]). E’, però, a Savigny (1840) che si
attribuisce il passaggio, nella concezione della persona giuridica, dalla
(sola) finzione scientifica (che non viene rinnegata) alla creazione
legislativa: “soggetto artificialmente creato dalla legge”
(Galgano, 2010; cfr. Flume, 1977; Schmidt, 1987; Birocchi, 1995).
Effetto della costruzione savignyana è la
‘intitolazione’ nel BGB
(01/01/1900) delle società come “Juristische Personen” (Buch
1. Allgemeiner
Teil; Abschnitt 1. Personen; Titel 1. Naturliche Personen; Titel 2. Juristische
Personen; Untertitel 1. Vereine;
Untertitel 2. Stiftungen; così il nostro Codice Civile del 1942:
Libro Primo. Delle persone e della famiglia; Titolo I. Delle persone fisiche;
Titolo II. Delle persone giuridiche; Capo II. Delle
associazioni e fondazioni; cfr., invece, il Code
Napoléon del 1804: il quale tratta la materia “Des Engagements des
Associés à l’égard des Tiers” come sezione II
del capo III “Des Engagements des Associés entre eux et à
l’égard des Tiers” del titolo IX “Du Contrat de
Société”).
La
adeguata considerazione-interpretazione del secondo dei due ‘dati’
ci rafforza, inoltre, nel sostenere che i connessi significati/essenze di
persona giuridica e rappresentanza possono/devono essere ri-costruiti
utilizzando adeguatamente entrambe le posizioni di studio dalle quali sono
stati costruiti e sviluppati: del diritto pubblico e del diritto privato.
La
logica giuridica romana non poteva che essere e realmente si rivela
(completamente) diversa dalla invenzione/innovazione
feudale/canonistica/parlamentare del secolo XIII.
Nella
esperienza romana è fondamentale (vedi, supra, § 3) la
categoria giuridica di società. Questa: abbraccia una fenomenologia
assai importante nonché corrispondentemente ampia e, al contempo,
è (ciò nonostante)
tecnicamente nettissima.
La societas è un ‘contratto
consensuale’ (il ché non esclude la ipotesi della
‘fattispecie’ societas re
contracta) il cui elemento costitutivo specifico (assolutamente unico nel genus contrattuale e di straordinario
valore ideologico e ‘politico’ oltre che tecnico [vedi, infra, §§ 6 s.]) è la utilitatis
communio degli associandi come ‘causa’ (Onida, 2006; cfr., in
gen., Grosso 1960) e, quindi, la loro costituzione in communitas.
Noi
ci interessiamo delle societates in
quanto vogliano/possano porsi (e si pongano realmente) in relazione, come tali cioè come unità,
con altri singoli uomini o collettività di uomini: le societates di appalti pubblici e i collegia professionali ma anche i collegia comunità locali (le civitates, promosse con una lex publica) e lo stesso populus Romanus (quest’ultimo: sia
secondo la celebre definizione ciceroniana [rep.
1.39 <Albanese, 1983; Hecketsweiler, 2009; cfr. Nicolet, 1985; Crifò,
1961; 1985>] sia in forza della indiscussa natura societaria [collegia] dei populi delle res publicae
municipali [Daremberg, Saglio et
Pottier, 1904]). Tutte queste societates
si riconducono ad un numero circoscritto di ‘tipi’ societari
(ancora Gai. D. 3.4.1; cfr. Asconio, in Cornel. 59.11) ma sono, dal punto di
vista della importanza sia qualitativa sia quantitativa, le manifestazioni/species più significative del
fenomeno/genus societario..
Ciò risulta sia da evidenze storiche (anche epigrafiche: Mastino, 2012)
sia da testimonianze letterarie come quella dell’‘osservatore’
greco Polibio, il quale (Storie, 6.17
[in part.: § 3]) individua addirittura la specificità / punto di
forza della ‘costituzione’ romana nella partecipazione di tutti i
cittadini alla attività pubblica mediante la creazione di società
di appalto (cfr. Liv. 23.49.1).
Nell’affrontare
questo esame, dobbiamo dunque prendere le distanze dall’altro topos dottrinario della
“ir-rilevanza esterna della societas”:
in sé esatto ma che rischia di essere sopravvalutato o – peggio
– valutato in maniera distorta (Onida, 2011). Il richiamo
specifico per il contratto di societas
alla capacità del contratto in generale di generare obbligazioni
soltanto tra i contraenti (Pap. D. 17.2.82 Iure societatis
per socium aere alieno socius non obligatur, nisi in communem arcam pecuniae
versae sunt) ha senso a contrario:
in quanto è corrispondentemente specifico della “causa”
contrattuale societaria la costruzione di una communio (quanto meno
utilitatis) e, quindi, la creazione di una communitas. Tale communitas
ha (non può non avere) precisamente una naturale, intrinseca, essenziale
vocazione ad entrare (essa, la ‘nuova’ communitas, non i suoi membri costituenti uti singuli) in relazione con il mondo, ovverossia a ‘jouer
un rôle’ o
‘des rôles’ giuridicamente rilevanti (ciò che i giuristi
romani chiamano persona, personae [vedi, supra, § 4b]).
Cosa occorre, per la realizzazione di questa vocazione, ce
lo dicono abbastanza pianamente Gaio e Giustiniano (Gai. D. 3.4.1.1): «ad exemplum rei publicae habere res
communes, arcam communem et actorem sive syndicum, per quem tamquam in re
publica, quod communiter agi fierique oporteat, agatur fiat».
Premesso che del consistente e importante frammento (D. 3.4.1.pr.-4) zoppica (soltanto) il primo periodo, con un
impossibile “societas […]
habere”, notato che Gaio e
Giustiniano addirittura ribadiscono il concetto: ad exemplum rei publicae, tamquam
in re publica, e rimarcato il ricorrere (come in Papiniano loc. ult. cit) dell’elemento
‘reale’ costituito dall’impiego dell’arca communis quale elemento che fa la
differenza, la conclusione è che si tratta – per i soci – di dotarsi della
struttura dinamica corrispondente ai complessivi concezione e regime unitari.
Tale struttura è sinteticamente
indicata/interpretata dai giuristi romani con il ricorso alla categoria di corpus (vedi ancora Gaio/Giustiniano ult. cit.). La societas, costituita da una pluralità di uomini-res (Catalano, 1990) è –
dunque e, direi, ovviamente – essa stessa una res: una res corporalis.
I soci acquisiscono/hanno (prima liberamente quindi previo permesso/concessione
[Coli, 1913, e ancora Catalano, 1990]) un corpus
(ex distantibus, ancora
ovviamente [Mehr, 2008;
cfr. D’Alessandro, 1989]). Questa affermazione può apparire
‘piana’ ma si scontra con- e deve avere ragione della diffusa e
consolidata abitudine dottrinaria a non concepire la ‘unità’
se non attraverso la astrazione (la “persona giuridica”),
ragione per cui la
“unità” (‘necessariamente’ astratta) viene
(quindi) contrapposta alla concreta o fisica “collettività”
(vedi, supra, § 2).
Lascio, ora, aperto il quesito - non
gravissimo - su an e modo di una nostra
‘denominazione’ della societas/corpus concreto. Mi limito qui alla
osservazione puramente negativa che, scartate necessariamente espressioni
compromesse come ‘ente’ o ‘soggetto’, la societas dotata di corpus neppure può essere definita soddisfacentemente
“centro di imputazione” (Orestano, 1968). Tale ultima categoria,
infatti, vale anche per la hereditas
iacens (la quale [Flor. D. 46.1.22] personae vice fungitur, sicuti municipium et decuria et societas;
cfr. Ulp. D.
41.1.34) ma, a differenza della hereditas, la societas/corpus è formata esclusivamente
da uomini ‘capaci di intendere e volere’ ed è essa stessa
‘capace di intendere e volere’.
Resta da comprendere come.
Per
comprendere ‘positivamente’ il modus
operandi di una societas dotata di corpus, dobbiamo ora riprendere l’istituto
menzionato nella prima formulazione della nostra ìpo-tesi (vedi, supra, § 3) e che – crediamo
– costituisce un nucleo, forse il
nucleo della specificità della tecnica giuridica romana: la
articolazione dell’iter di formazione-manifestazione
della volontà in due fasi ovverossia (per usare una categoria moderna)
la scomposizione e la ricomposizione dell’‘atto giuridico’ in
due atti diversi (per tipologie e di contenuti e di titolari) e – al
contempo – complementari.
Inoltre,
mentre appare certo che i termini del binomio medievale-moderno ‘persona
giuridica e rappresentanza’ nascono insieme come parti complementari di
una costruzione unica, appare doversi, invece, pensare che il binomio
‘società e articolazione dell’iter di formazione della volontà’ sia l’esito
particolarmente raffinato di un (lungo?) percorso, il cui inizio può
ravvisarsi in due archetipi distinti per quanto entrambi di àmbito
familiare.
La familia è concepita come la base
di una organizzazione societaria tendenzialmente universale e di cui la
repubblica è il baricentro (Cic. off.
1.54; cfr. Paul. D. 25.2.1; Triph. D.
42.1.52; Gord. CJ. 9.32.4 pr.
[a.242]).
La
origine della societas consensu contracta viene individuata nel
consortium familiare (Gai. 3.154,
154a, 154b; vedi Onida, 2007). Tale origine è discussa in dottrina.
Credo però che possa/debba essere tenuto presente, a questo proposito,
che, se è vera la tesi secondo cui la sodalitas arcaica è una unione prodotta non dal rapporto dei
sodales tra loro ma di ciascun sodalis con il princeps (Fiori, 1999), si può/deve pensare che, in
età arcaica, sono presenti due tipi di unioni di uomini profondamente
diverse tra loro: quella in cui la figura del capo è essenziale (sodalitas) e quella in cui la figura del
capo è assente (consortium).
In tale caso, sarebbe evidente che tra i due tipi prevale quello
consortile/familiare, il quale poi troviamo riprodotto (con innovazioni [vedi, infra, §§ 5d s.]) nella societas.
La
origine della articolazione dell’iter di formazione della volontà
appare ravvisabile, invece, nella attività negoziale del filius o servus a sèguito
di iussum del pater o dominus ovvero di
praepositio (vedi, ancora nel sec. IX
d.C., Sch. 7 a Bas. 23.3.24 = D. 22.1.24.2 [Solazzi, 1955; Quadrato,
1987; cfr., circa il condominio del servus, Di Porto, 1984; Cerami P. - Di Porto A.
- Petrucci A., Torino 2004]).
La
articolazione di diritto sostanziale dell’iter decisionale romano è complessivamente confermata dal
meccanismo processuale delle azioni cosiddette “con trasposizione di
soggetti”.
Mi
limito, anche qui, ad un cenno soltanto ‘per memoria’.
Questa
‘soluzione’ ‘societaria e con articolazione dell’iter di formazione della
volontà’ ha nel proprio patrimonio genetico due decisivi sviluppi.
Un
primo sviluppo è la esigenza di inserire, nello snodo della
‘articolazione dell’iter
di formazione della volontà’ un istituto (una magistratura) ad hoc, la cui funzione è la
conservazione dei termini corretti di quella stessa articolazione (tribuni plebis, syndici, defensores).
Un
altro sviluppo è la possibilità, una volta effettuata la
fondamentale scomposizione dell’‘atto giuridico’ in due
diversi segmenti, di aumentare il numero dei segmenti secondo la
necessità; ciò che consente la applicazione della soluzione
societaria a collettività di dimensioni sempre più vaste e,
potenzialmente, universali. La applicazione più evidente di questa
possibilità è nelle Diete provinciali romane, cui concorrono i
magistrati delle Città della Provincia, per le decisioni concernenti il
governo della stessa (Mommsen, 1885).
Una
volta positivamente comprese le specificità delle due diverse soluzioni
giuridiche (medievale-moderna e romana) resta da comprenderne il
‘senso’; ciò che è possibile soltanto se se ne
comprendono le rispettive strumentalità a diversi orientamenti politici.
Max Weber aveva osservato (1922) che
«Repräsentativ-Körperschaften sind nicht etwa notwendig
“demokratisch” [...] Im geraden Gegenteil wird sich zeigen,
daß der klassische Boden für den Bestand der parlamentarischen
Herrschaft eine Aristokratie oder Plutokratie zu sein pflegte (so in
England)» ed aveva aggiunto «Der Repräsentant, in aller Regel
gewählt [...], ist an keine Instruktion gebunden, sondern Eigenherr über
sein Verhalten. Er ist pflichtmäßig nur an sachliche eigene Ueberzeugungen, nicht an die Wahrnehmung von
Interessen seiner Deleganten gewiesen»; «der von den Wählern
gekorene Herr derselben, nicht: ihr
‘Diener’ ist [...] Diesen Charakter haben insbesondere die modernen
parlamentarischen Repräsentationen angenommen» (cfr. Bilancia,
2000).
La
strumentalità degli istituti medievali-moderni della persona giuridica e
della rappresentanza/sostituzione ad un orientamento ‘politico’
elitistico/oligarchico è già perfettamente esplicitata da Thomas
Hobbes, secondo il quale, la costituzione della persona giuridica (= artificialis) e – dunque –
rappresentata si ottiene mediante uno specifico contratto: il pactum unionis,
prodotto dall’‘innesto’ nel contratto (romano) di
società (il pactum societatis) del contratto di soggezione (il pactum subiectionis, ideato in ambiente feudale: pare da
Manegold von Lautenbach, Liber ad
Gebehardum,
1083-1085). Quando, nel secolo XI, troviamo formulata la dottrina del
patto di soggezione, hanno già oltre un secolo e mezzo di vita la teoria
e la prassi propriamente feudali della necessità organizzativa della
soggezione: risale, infatti, all’anno 847 il “Capitolare di
Mersen” (o Meerssen, nei Paesi Bassi) testo normativo
(considerato il punto di partenza formale dell’ordinamento feudale) con
il quale il re franco e Imperatore del Sacro Romano Impero, Carlo II “il
Calvo”, fa obbligo agli uomini liberi di individuarsi un capo, scelto tra
il re o tra i signori più potenti del territorio e prescrive che tale
rapporto non possa essere risolto se non per una giusta causa. Nel X secolo, in
àmbito anglosassone, una norma omologa equipara l’uomo privo di un
signore ad un fuorilegge. Ciò con buona pace della ‘scoperta’,
nel Mediterraneo del VI secolo a.C., della possibilità della democrazia,
testimoniata nelle discussioni persiane del 522 a.C. tra Otane, Megabizo e
Dario (Erodoto, Storie, 3.82 [440-429
circa a.C.]) ma anche della cacciata romana del re Tarquinio il Superbo da
parte dei cittadini romani per iniziativa di Bruto e Collatino (509 a.C.).
L’innesto del contratto di soggezione nel contratto di società,
operato da Hobbes, è la prima ‘contaminazione’ cui abbiamo
accennato in apertura del nostro ragionamento (vedi, supra, § 3). Si deve
anche notare che, mentre nella logica giuridica la rappresentanza appare
funzionale alla personalità giuridica, nella logica politica è la
personalità giuridica funzionale alla rappresentanza.
Risulta
evidente, nel confronto, la strumentalità degli alternativi istituti
romani, della societas e della
articolazione dell’iter di
formazione della volontà, ad un orientamento ‘politico’
democratico («Pilatus […] – als Römer – gewohnt
ist demokratisch zu denken» [Kelsen, 1920]), in quanto per mezzo di tali
istituti gli uomini possono unirsi e operare unitariamente senza (bisogno di)
alcun impegno alla subordinazione ad un capo, anzi: senza bisogno di un capo.
La societas è,
democraticamente anzi “repubblicanamente” adespota.
Ciascun
orientamento politico e la sua traduzione giuridica si fondano su una ideologia
/ visione del mondo.
La
soluzione medievale-moderna (feudale-plutocratica) della persona giuridica e
della rappresentanza si giustifica a partire da una idea essenzialmente
conflittuale della natura umana. Il trasferimento della unità della
collettività nel simulacrum/idolum della persona giuridica e del
còmpito di provvedere agli adempimenti unitari nel rappresentante di
quest’ultima, vuole conciliare i vantaggi della organizzazione unitaria
del gruppo (essenzialmente: la “moderazione” del conflitto
interindividuale) con la prosecuzione da parte di ciascun suo membro nella realizzazione
della – postulata – propensione naturale alla individuazione ed al
perseguimento esclusivi della propria utilità individuale. Il prezzo
pagato è la subordinazione ad un ‘capo’; Fedro (circa 20 a.C. - circa 50 d.C.) avrebbe detto: il prezzo di questa libertà (“dei
moderni”) è l’assoggettamento alla catena.
La
soluzione antica della società e della articolazione dell’iter decisionale si spiega a partire da
una idea essenzialmente cooperativa della natura umana. Con il contratto di
società, ciascun contraente e tutti i contraenti si impegnano a
perseguire la propria utilità individuale non direttamente ma attraverso
la individuazione e il perseguimento prevî della utilità comune
(vedi ancora Cic. rep. 1.49). Non mi soffermo
qui sulla vertiginosa valenza ideologica di tale “causa” negoziale
(creazione volontaria della “comunione” e della
“comunità” [per un approccio: Garancini, 1993]) e mi limito
ad osservare che il premio della connessa catarsi è,
come dice Rousseau, la conservazione della libertà naturale
(nonché – per noi contemporanei, incredibilmente – anche una
maggiore utilità individuale [Robert Putnam, 1993]).
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1 Testo riveduto (ma
ancora in fieri e senza apparato di
riferimenti) della comunicazione presentata al Seminario di studi
“Societas. Strumento di
organizzazione pubblica e privata” (Sassari, 4-5 maggio 2012).
[2]
Protocollo di cooperazione tra la Université de Montpellier, la
Università di Sassari e l’ISPROM - Istituto di studi e programmi
per il Mediterraneo, sulla base di un progetto di ricerca convenuto a
Montpellier il 5 luglio 2010 tra i professori L. Hecketsweiler
(Université de Montpellier), Vincente Fortier (CNRS - Université
de Montpellier), G. Lobrano (Università di Sassari e ISPROM) e altri
docenti di Diritto pubblico e di Storia del diritto della Université de
Montpellier.
[4] Galgano, 2010, 183 s., nt. 20,
osserva che Riccardo Orestano (1959, 145) «Tiene a mettere in evidenza
come ancora nello stesso diritto giustinianeo non manchino testimonianze
precise di una certa oscillazione tra le due concezioni: la
“collettiva” e l’“astratta”» e che
«per questo storico “il lento e faticoso processo di astrazione e di
unificazione” che porta all’idea di una personalità
corporativa non solo non può ritenersi compiuto nell’età
classica, ma neppure nello stesso diritto giustinianeo (ibidem, p. 166)»); meglio Kelsen, (1925) 1954, 96: «La
persona fisica è […] non già una realtà naturale, ma
una costruzione del pensiero giuridico».