Il principio rex sub lege

 

Luisa Bussi

Università di Sassari

 

 

In ricordo del Prof. Sergio Fois[1]

 

 

Desidero anzitutto ringraziare gli organizzatori di questa iniziativa per avermi offerto l’occasione di contribuire oggi ad onorare il caro Sergio Fois che fu di certo l’amico più difficile e al contempo più vicino al mio cuore. Più difficile perché animato interiormente da un demone implacabile, al quale è stato fedele tutta la vita: un demone che lo spingeva ad essere inesorabile anzitutto con se stesso, e a pretendere che anche coloro che amava lo fossero; più vicino al cuore, perché il suo occhio sapeva coglierne la verità profonda con la poesia, con l’intuizione, con la totale franchezza, con l’assoluta mancanza di indulgenza verso la tentazione di cedere al facile, all’opportuno, al conveniente.  Credo di non aver conosciuto nessuno più di lui capace di battersi fino allo spasimo per quella che riteneva una questione di principio: non è un caso che il tema che più lo rappresenta come studioso sia quello stesso cui è dedicato questo incontro, vale a dire il principio di legalità.

Principio del quale altri qui definiranno la natura, come individuata da Sergio Fois, o ricostruiranno il valore che in proposito va riconosciuto al suo apporto scientifico. Io mi limiterò a soffermarmi sulle origini di quel principio, che Fois vede quale frutto di elaborazione dottrinale e riconduce al pensiero giuridico tedesco, cui la maggioranza degli studiosi riconosce in generale la paternità del diritto pubblico contemporaneo. Ma se in proposito si ricordano i Paul Laband, i Georg Meyer, i Rudolf Gneiss, io voglio qui, sia pur brevemente, accennare a quale genesi questi stessi si connettono, che è genesi complessa e da molti misconosciuta.

Tale genesi, infatti, si riallaccia – attraverso la mediazione dei suoi ultimi cultori come Karl Friedrich Häberlin - al grande patrimonio intellettuale della pubblicistica del Sacro Romano Impero. Fu in questa pubblicistica del XVII e nel XVIII secolo, ormai autonoma rispetto al diritto romano, che affonda le sue radici la scienza del diritto pubblico del XIX. Tale scienza è permeata di una eredità concettuale che traspare ancora nella dottrina kelseniana. Basti pensare a quello che è stato uno dei primi studi del grande teorico della dottrina pura del diritto, Die Staatslehre des Dante Alighieri, ove emerge chiaramente di quale pane egli si sia nutrito[2].

Si tratta di un pane che viene lievitando nel momento in cui, dopo la Riforma e più ancora dopo la pace religiosa, i giuristi tedeschi sono indotti a studiare la concreta realtà giuridica nella quale sono immersi. Se già dal XV secolo l’Umanesimo aveva insegnato a riguardare le fonti giustinianee da una prospettiva storicista e, a partire dalla Francia, la scuola dei Culti aveva spinto i dotti a riguardare quello romano come il diritto proprio di un popolo del passato, anche in Germania la scienza giuridica si rinnovava, emancipandosi dalla metodica sin qui dominante, e facendo proprio oggetto di studio le  fonti giuridiche autoctone, vale a dire il diritto pubblico del Sacro Romano Impero[3]. Intendiamoci: non che quegli studiosi mancassero di conoscere il diritto romano, che oltretutto era come diritto dotto, come alte gebrauch und styl, applicabile in via sussidiaria dal Tribunale Camerale dell’Impero, ma la necessità di dare risposta alle molte questioni emergenti in seno all’Impero, dai molteplici rapporti istituzionali, aveva reso evidente ai loro occhi quanto questi rispondessero a principi profondamente diversi. Non per nulla Cornring sosteneva che “quod in coeteris juris disciplinis ratio praestat, id in jure publico Germaniae historia”, e il concetto viene ribadito ancora nell’ultimo quarto del XVIII secolo dal Nettelbladt: ciò voleva dire interpretare le norme del diritto positivo alla luce dei motivi storici che le avevano determinate, per accertarne l’esatta natura.

Una differenza fondamentale balzava, infatti, ai loro occhi. Il diritto romano aveva offerto al pensiero giuridico il modello di un potere tutto concentrato nelle mani di un principe legibus solutus[4]: così infatti avvertiva il Digesto e insegnavano le Istituzioni. E’ ben vero che nella Costituzione Digna vox, trasmessa dal Codice, Teodosio aveva affermato essere opportuno che l’imperatore si professasse legibus alligatus:

 

Digna vox est maiestate regnantis legibus alligatum se principem profiteri.

 

Così affermava Teodosio. E continuava:

 

Et oraculo praesentis edicti, quando nobis licere non patimur, aliis indicamus[5].

 

Ma la Glossa da un lato rinviava al passo del Digesto ora citato, dall’altro si soffermava su quell’indicamus per notare: Non dicit praecipimus quia a par in parem non habet imperium. E ponendo a raffronto i due diversi principi la scuola si orientò a dire che se i sudditi devono osservare le leggi ex necessitate il monarca  lo deve unicamente ex voluntate[6], confezionando così il concetto di un potere da tutti gli altri qualitativamente distinto, che sarebbe servito di modello ai teorici dello Stato assoluto.

La struttura dell’Impero era tutt’altra. Era nata da rapporti personali sanciti dai diversi contratti feudali, e il potere del signore non era un potere onnicomprensivo, ma si estendeva solo fin là ove si estendevano gli obblighi feudali del vassallo. Ne era derivata una struttura dualistica, contrattuale del potere, che opponeva all’Imperatore gli immediati dell’Impero e a ciascuno di questi la cerchia dei vassalli e delle città da loro direttamente dipendenti.

Nell’ambito del SRI esisteva una doppia sovranità. La prima estesa a tutto il Sacro Romano Impero e spettante alla maestà imperiale; la seconda limitata ai confini di ciascuno Stato territoriale, spettante ai principi dell’Impero e denominata Landeshoheit o superiorità territoriale. L’Imperatore, però, nell’esercizio delle sue funzioni, doveva generalmente munirsi del consenso dei ceti, senza il quale né poteva porre leggi nuove, né proporre nuova interpretazione delle antiche che il Tribunale Camerale dell’Impero dovesse applicare. Facevano eccezione solo gli jura cesarea reservata. Cioè i diritti sovrani residuali che l’Imperatore esercitava ex plenitudine majestatis.

La dottrina non aveva mancato di porsi il problema di come si potesse conciliare la maestà dell’Imperatore con la necessità di udire il parere degli Stati e se non fosse contrario all’idea stessa di sovranità il concetto di limite. Si faceva osservare che non si doveva fare confusione fra il diritto e l’esercizio dello stesso, la majestas e l’exercitium majestatis[7].

Insomma, se il Sacro Romano Impero non aveva una costituzione intesa come documento, carta costituzionale, aveva però, anche dal punto di vista del XIX secolo, una costituzione in senso materiale che stava nelle leggi fondamentali dell'Impero, in parte tramandate dal Medio Evo, ma per lo più formatesi e continuamente sviluppatesi nell' età moderna. Queste erano anzitutto la Bolla d'oro del 1356, che regolava l'elezione dell'Imperatore e la posizione istituzionale dei principi elettori, la Pace di Westfalia per le clausole riguardanti l'ordinamento del Reich e tese a regolarne durevolmente la struttura dualistica, così come le Capitolazioni elettorali imposte dai Principi Elettori al capo supremo del Reich, che legavano quest'ultimo al rispetto dell'ordine giuridico esistente e circoscrivevano le sue competenze. Lex regia germanorum le definiva Benedict Carpzov, facendoci misurare quanto della circostanza fossero consapevoli i giuspubblicisti del XVII secolo. Carpzov qualificava il Reich come un regnum conditionatum oder pactionatum e Johannes Limneus, sosteneva che le leggi fondamentali del Reich costituivano nel loro insieme l'ordo administrationis il quale, in quanto regolava le competenze degli organi supremi del Reich, formava di questo l'ordinamento costituzionale. Linneo solo in tanto reputa giuridicamente validi gli atti del Kaiser, solo in tanto vi ravvisa degli acta legittima, in quanto questi si fondino su quelle; dunque, l’atto d'imperio del Kaiser il quale non sia sorretto dalle leggi fondamentali è per lui da ritenersi actum nullum. Non solo: l'Imperatore che nella sua attività le abbia violate può perciò stesso essere deposto. Da queste posizioni potè nascere la dottrina della eingeschraenkte Monarchie, cioè di una monarchia limitata – che il von Seckenberg, nei primi decenni del Settecento, non esita a qualificare come forma mista di governo monarchico-democratica – e più tardi svilupparsi la teoria dello Stato di diritto[8] , del che sono testimonianza le cosiddette lezioni tenute ai Principi ereditari di cui quelle del Von Beck o quelle dello Svarez sono un esempio[9].

E’ in questa temperie che si collocano, ad esempio, le Capitolazioni di Giuseppe II, ove si legge:

 

“Noi dobbiamo e vogliamo che, dopo iniziato il nostro imperiale governo, siano nel Romano Impero fondate pace e unità, rispettati diritto e giustizia, e disposto in modo che codesti abbiano il loro conveniente svolgimento tanto a favore del povero quanto a favore del ricco, senza differenze di persona, di ceto o di religione, sia pure in affari riguardanti Noi e l’interesse della Nostra Casa, e possano venire applicati secondo le leggi esistenti, nonchè secondo le libertà e le antiche ricevute consuetudini”[10]

 

Insomma, che secondo il diritto positivo nei confronti del Kaiser vigesse il principio rex sub lege non si può certo nutrire alcun dubbio[11]. Il problema sorge piuttosto a riguardo dell’ordinamento dei singoli territori dell’Impero i quali, pur assai più tardi di quanto non fosse accaduto in Francia, tendono fra XVII e XVIII secolo ad affermare la loro signoria territoriale nelle forme della sovranità assoluta.

Sin qui, il fatto che i Principi fossero comunque soggetti ad una organizzazione ad essi superiore che – benchè resa indubbiamente meno libera di intervenire – pure li vincolava al rispetto delle leggi fondamentali del SRI, faceva sì che, usando essi male del loro potere, non potessero contare sull’impunità. Si è a conoscenza di prìncipi puniti per il loro malgoverno: il Pütter cita il caso di un conte dell’Impero il quale, nel 1775, a causa di abusi nell’esercizio del suo potere territoriale, venne condannato a 10 anni di prigionia in fortezza.

Titolare della funzione giurisdizionale nell’Impero era pur sempre il Kaiser, ma i Ceti ne erano considerati contitolari. Al vertice della giurisdizione stavano due istituzioni di cui l’Imperatore era considerato il protettore: il Reichskammergericht (o tribunale camerale dell’Impero) e il Reichshofrat (o tribunale aulico dell’Impero). A tali tribunali potevano ricorrere non solo i signori territoriali, ma anche i loro sudditi, in prima o anche in seconda istanza, avverso le sentenze dei tribunali territoriali, per abusi di potere.

I Tribunali dell’Impero sorvegliavano infatti che il principe non oltrepassasse i limiti costituiti dalle libertà individuali, da diritti fondati su un valido titolo d’acquisto, dai diritti quesiti. Essi dovevano applicare, anzitutto le Allgemeine Reichsgesetze; quindi le  Landesrechte e le  Landesordnungen  dei principi dell’Impero, e in subordine il diritto comune inteso come diritto dotto, der alte gebrauch und styl, come era stato specificato con l’istituzione stessa del Tribunale Camerale dell’Impero e la conseguente recezione; infine le ordinanze per e dei Tribunali.

Nei fascicoli dei processi tenuti dinanzi al Tribunale Camerale dell’Impero, le cause promosse dai sudditi contro i loro legittimi Principi non sono affatto rare, così come significativo è il numero di cause intentate dai principi avanti il Reichskammergericht allo scopo di ottenere ubbidienza dai sudditi![12]

Proprio perché nella pratica i sovrani tedeschi erano tutti, chi più chi meno, dei monarchi con limitati poteri, sin verso la metà del XVIII secolo, non si è sentito mai veramente il bisogno di teorizzare il principio se il principe dovesse essere sottoposto alla legge[13]. Quasi tutte le opere che a ciò si riferivano erano disquisizioni nascenti dalle proposizioni del diritto romano che abbiamo citato. Ma, con l'affermarsi della Landeshoheit e col contemporaneo diffondersi delle teorie illuministiche, si avvertì la necessità di affrontare il problema dal punto di vista delle questioni poste dai rapporti tra popolo e principe.

Va ricordato in proposito che la dottrina faceva differenza fra il Reichsrecht, il diritto pubblico dell’Impero e il cosiddetto Allgemeines Staatsrecht, il diritto pubblico generale che era una parte del diritto naturale, uno ius cerebrinum come si sarebbe espresso Puetter. Vi era certamente chi tentava di coordinare i due sistemi, applicando al Reichsrecht, che era prodotto di evoluzione storica, i concetti dell'altro, formulati dalla riflessione filosofica. Così per lo Schnaubert, nel principe si deve riconoscere una doppia personalità: quella di monarca e quella di Privatmann cioè di privato cittadino; quindi egli può al contempo come monarca dare la legge – e la sua azione come legislatore essere considerata come azione di tutta la nazione – e come privato cittadino essere da quella stessa legge obbligato[14]. Dunque come legislatore il principe era tenuto a rispettare i termini delle capitolazioni giurate al momento di assumere il potere, come privato cittadino era tenuto all’osservanza delle stesse leggi da lui emanate. E’ facile vedere qui una contraddizione in termini (neminem in se ipsum imperium habere, sibique leges imponere posse): tale contraddizione era oltretutto posta concretamente sotto gli occhi dal Privatfuerstenrecht ossia lo jus privatum illustrium, che coinvolgeva l’immobilizzazione di un determinato patrimonio, la sua inalienabilità, la sua amministrazione, la capacità di succedere e l’ordine di successione e così via: si trattava di un insieme di rapporti per i quali la normativa applicabile al sovrano e alla sua famiglia poteva differire anche profondamente da quella consueta, anzi da quella dal sovrano stesso posta in essere per i suoi sudditi. Più correttamente il von Seckendorff aveva posto soprattutto l’accento sui doveri che il principe aveva nei confronti di D[15]. Questa osservazione, che oggi potrebbe far sorridere, rinviava in realtà alla natura confessionale dello Stato. Il principe aveva sì lo jus reformandi, cioè il potere di stabilire la confessione religiosa del suo territorio, ma non quello di contravvenire alle norme dello jus divinum.

Il problema che ci interessa è quindi piuttosto  se, al di là di questo aspetto, in quanto principe la sua potestà normativa incontrasse dei limiti. Anche nei singoli territori dell’Impero, tali limiti erano dati anzitutto dalle leggi fondamentali dello Stato: «Wie könnte er über etwas Gewalt haben was der Ursprung seiner Gewalt ist?» osservava il von Justi: come potrebbe il principe aver potere su ciò che è la fonte stessa del suo potere?[16]. Il capo dello Stato – chiarisce più arditamente lo Schlözer – doveva essere considerato solo come Depositär des Gemein- Willens[17]. Nelle disposizioni del diritto positivo si era giunti a distinguere fra Staatsgesetze e Privatgesetze: le leggi territoriali potevano derogare a quelle imperiali solo in ordine alle seconde. Giacchè queste si ritenevano emanabili in base alla Landeshoheit; le prime, invece, riguardavano lo stato pubblico stabilito dalle leggi fondamentali del Reich[18].

Ma il potere del Principe era limitato anche dalle Freyheiten dei sudditi. Questo termine indicava diritti derivanti da una contrattazione svolta fra principe e sudditi, diritti ai quali si dava il nome di Freyheiten in quanto delimitavano un campo nel quale il suddito era libero dall’autorità del principe. Sicché, qualora egli avesse voluto concedere delle dispense, doveva badare che queste non offendessero il diritto quesito o il privilegio di terzi.  Di conseguenza, come chiariva  lucidamente Moser, queste Freyheiten concesse dal principe ai sudditi costituivano una limitazione del suo potere.

L’esistenza e l’ampiezza di tali limiti differivano non solo – come abbiamo visto – a seconda che si avesse riguardo all’Imperatore o ai principi territoriali, ma anche fra questi ultimi, a seconda della forma di governo, a causa della quale a taluno erano riconosciuti più poteri che ad un altro. Il processo di consolidamento della Landeshoheit  non avviene infatti in maniera uniforme, sicché in molti Laender i limiti posti al potere del principe dai particolari Patti o Leggi fondamentali, sono resi efficaci dalla sussistenza dei Landstaende senza il cui consenso il principe non può muoversi liberamente sia pure sub praetextu utilitatis vel necessitatis publicae, perché la dottrina chiarisce  che mai la salus publica si trova in maggior pericolo di quando si vogliono abbattere o aggirare le leggi fondamentali sulle quali riposa il sistema statuale.

Tuttavia tale sistema era tutt’altro che statico: come chiariva Moser il principio vivimus legibus antiquis  doveva essere inteso come valevole sino a tanto che le leggi fossero idonee: se in un Landesvertrag era stabilito che così dovesse essere per tutto il tempo avvenire, ciò andava inteso nel senso che non si trattava di una eternità teologica, ma solo politica e morale, vale a dire per quanto tempo le cose rimanevano così com’erano, ovvero così piaceva agli interessati.

E’ infatti proprio l’indebolimento dei Ceti, e il rafforzamento del potere principesco a conferire al Settecento la sua speciale configurazione. Il von Ickstatt sostiene che tutti i patti fra il principe e i Landstände non hanno alcuna efficacia vincolante per il primo. Lo Schröder, nella sua Disquisitio politica von Absolutenfürstenrecht, sostiene anch’egli che un Principe non è legato ai contratti stipulati con i sudditi, quando essi pregiudichino i suoi diritti di sovranità, e pertanto egli può fare uso anche di mezzi sgraditi[19].

Ma resteranno a lungo forti le voci contrarie: il Treuer sostiene invece che le capitolazioni, le transazioni e gli accordi col popolo non sono affatto da annoverare fra le mostruosità della monarchia: un principe il quale si attenga ai pacta conventa  pone sulle fondamenta più solide la sua autorità. Si può dire anzi che la ferma convinzione che nei pacta conventa  si trovasse il fondamento delle libertà tedesche, è stata, in Germania, la più valida difesa  contro l’assolutismo.

I giuristi ritenevano inviolabili le norme del diritto naturale. E anche se quelle norme non contenevano limiti espressi per la sovranità territoriale, questa rimaneva soggetta al principio generale che nessun diritto può essere dedotto se non quello che torna a favore del benessere comune. Svarez, precettore di Federico Guglielmo III di Prussia a sua volta scrive che: “Solo l’impedimento di un grave danno da temere con morale coscienza per la civile società, solo la fondata speranza di conseguire un vantaggio molto considerevole e durevole per il tutto possono autorizzare lo Stato a limitare la naturale libertà dei propri cittadini attraverso le leggi di polizia”[20].

Inoltre, come s’è detto, l’azione del principe incontrava un limite nella naturale libertà del suddito, nel titolo d’acquisto del suo diritto, nei diritti quesiti,  cioè in quei diritti che ognuno era autorizzato ad arrogarsi su determinati beni o diritti come sua proprietà legalmente acquistata. Così, per esempio, contro il diritto di nomina ad un ufficio del principe poteva opporsi il diritto di una corporazione o di un nobile del suo territorio a operare in tal senso. Ora, non è che si ritenesse che questi diritti non potessero venire sacrificati in via assoluta alle esigenze della amministrazione: ciò, però – come rileva il Pütter – poteva avvenire solo in modi da determinare con molta precisione. Occorreva, cioè, che potesse essere invocata una superiore “ragion di Stato” in forza della quale la proprietà poteva essere espropriata, il privilegio annullato, disconosciuto il contratto con i sudditi. Ma questi potevano appellarsi al Tribunale dell’Impero sostenendo che a loro giudizio il bene comune non richiedeva affatto il sacrificio che veniva loro imposto.

Bisogna tuttavia tenere presente che l’intervento dei tribunali dell’Impero era legato all’applicazione di  editti, patenti, rescritti. Ma l’attività amministrativa del principe non trovava norma in essi, bensì in Hofdekrete, in provvedimenti di gabinetto, e i Tribunali dell’Impero, come si vede dalle Capitolazioni elettorali dell’Imperatore Giuseppe II o dal cosiddetto Jüngster Reichsabschied del 1654, in materia di provvedimenti di natura amministrativa erano tenuti a non dare facile ingresso alle doglianze dei sudditi contro il loro signore territoriale.

Inoltre, finirono con il limitare profondamente la possibilità d’intervento dei grandi tribunali i privilegi de non appellando e de non evocando, che inizialmente vantati solo dai Principi elettori (per via della Bolla d’Oro) e dall’arciduca d’Austria (per via del privilegium maius)[21] nel tempo vennero conquistati anche da altri principi e questo proprio in concomitanza con l’ascesa dello Stato di polizia: quando questo raggiunse il suo massimo vigore, quando il controllo dei grandi tribunali dell’Impero si venne affievolendo, sembrò davvero che i sudditi fossero privi di qualunque garanzia giudiziaria, perché anche se i principi avevano promesso di volersi sottomettere ai propri tribunali, rimaneva sempre il fatto che questi ultimi erano alle loro dipendenze.

In specie, il cittadino finì col non avere alcuna possibilità di portare la propria doglianza all’attenzione di un tribunale dell’Impero, se il suo ricorso contro l’autorità era formulato come un affare di natura amministrativa. Fu la giurisprudenza – escogitando la cosiddetta teoria del fisco[22] – a trovare il modo di aggirare il problema, facendo sì che in sempre più numerosi casi potesse dirsi che l’autorità aveva calpestato diritti individuali di natura patrimoniale, e si ottenesse l’ammissibilità del ricorso, cioè fornì una serie di strumenti atti a trasformare l’affare di polizia in affare di natura civilistica[23].

Si trattava dunque di limiti, nonché di strumenti tesi alla protezione giurisdizionale dei sudditi, che non trovavano la loro definizione in leggi scritte, bensì in norme che – come quelle del diritto comune – erano anch’esse prodotto della elaborazione dottrinale, appunto quella elaborazione dottrinale educata alla speculazione su rapporti giuridico-istituzionali complessi, che, una volta polverizzati per sempre gli antichi paletti (sterilizzato il potere dei ceti e delle diete, sciolto lo stesso Sacro Romano Impero) ne suggerì di nuovi e più adatti alla società che era nata, nel movimento costituzionalista dell’Ottocento, nel quale Fois vede le radici del principio di legalità.

 

 



 

[1] E’ il testo dell’intervento letto in occasione dell’incontro tenutosi il 7 maggio 2012 nell’Aula Magna dell’Università di Sassari “Il principio di legalità. In ricordo del Prof. Sergio Fois”.

 

[2] H. KELSEN, Die Staatslehre des Dante Alighieri, Wien und Leipzig, 1905.

 

[3] Così R. HOKE, Pensieri sulle ricerche di Emilio Bussi sul Sacro Romano Impero nel Settecento (Relazione letta nell’Università di Modena, il 14 novembre 2000, in occasione della commemorazione: Emilio Bussi. Uno storico controcorrente, organizzata dalla stessa Università, sotto l’alto patronato del Presidente della Repubblica). Vedila in Le Carte e la Storia, 1999.

 

[4] D., I, de legibus, 3,31.

 

[5] C., I, 14,4.

 

[6] E. CORTESE, Il problema della sovranità nel pensiero giuridico medievale, Roma, 1982, 142-145.

 

[7] E. BUSSI, Il Diritto pubblico del Sacro Romano Impero alla fine del XVIII secolo, vol. I, Padova, 1957, 78.

 

[8] H.C. von SENKENBERG, Dissertatio de forma systematis Germaniae monarchico-democratica, Giessen 1724. Su ciò E. BUSSI, La democrazia nel primo Reich, in Diritto e politica in Germania, Milano 1971, 171.

 

[9] C. A. Von Beck, Recht und Verfassung des Reiches in der Zeit Maria Theresias. Die Vorträge zum Unterricht des Enherzogs Josephs im Natur‑ und Völkerrecht sowie im Deutschen Staats und Lehnrecht. (a cura di H. Conrad) Köln und Opladen 1964; C.G.SVAREZ, Vorträge über Recht und Staat (1746-1798), hrsg. H. Conrad und G. Kleinheyer,K öln und Opladen 1960. Su ciò vedi E. BUSSI, Stato e amministrazione nel pensiero di Carl Gottlieb Svarez, precettore di Federico Guglielmo III di Prussia (Archivio della Fondazione italiana per la Storia amministrativa), Milano, 1966.

 

[10] Wahl-Capitulation Josephi II, art. XVI, §1. Quali sono le leggi , le libertà e le antiche consuetudini che vengono in tale contesto richiamate e confermate?

             i.               Nessuno può venire evocato in giudizio fuori dei confini dell’Impero (norma già presente nelle capitolazioni di Carlo V).

            ii.               Nessun tribunale dell’Impero può venire modificato o istituito ex novo senza il consenso di una Dieta generale (srt. XVI §3).

           iii.               Presso gli Alti Tribunali dell’Impero la giustizia amministrata deve essere equanime (ohnparteylich administriert) secondo le istruzioni dell’Instrumentum pacis osnabrugensis e le leggi esistenti.

           iv.               Durante lo svolgimento del processo nessuno Stato deve ricorrere a rappresaglie, arresti e altre violenze contrarie alle leggi dell’Impero e alla Pace Pubblica.

            v.               Sia in cognoscendo che in exequendo si deve procedere secondo la costituzione dell’Impero, con esclusione di rapine, incendi, faide e guerre.

           vi.               Chi abbia patito le violenze anzidette deve essere risarcito da due arbitri nominati dalle parti, ovvero dalla Dieta.

          vii.               Tali garanzie devono essere prestate anche a coloro che si trovano nei territori della dinastia che esprime la persona dell’Imperatore.

 

[11] E. BUSSI, Il diritto pubblico, II, cit., 449.

 

[12] Nel 1778 il Borgomastro e i cittadini di Laasphe (Nordrhein - Westphalen) promuovono davanti al RKG una causa contro il conte Johann Ludwig von Sayn-Wittgenstein. I sudditi si dolgono che il conte ha violato le libertà e i privilegi convenuti nell’accordo del 1774 e protestano perchè i recenti provvedimenti di polizia sono contrari alle consuetudini cittadine.

 

[13] E. BUSSI, Il principio rex sub lege nell’Illuminismo tedesco, in Diritto e politica in Germania nel XVIII secolo, Milano 1971, 299.

 

[14] E. BUSSI, Il principio, cit., 303.

 

[15] E. BUSSI, Il principio, cit., 310.

 

[16] T.H.G. VON JUSTI, Die Natur und das Wesen der Staaten als die Grundwissenschaft der Sfaatskunst, der Policey und aller regierungswissenschaften desgleichen als die Quelle aller Gesetze, Berlin Stettin und Leipzig 1760, § 46, 74.

 

[17] Vedi A.L. SCHLÖZER, Allgemeines Staatsrecht und Staatsverfassungslehre, Göttingen, 1793, 95; lo Schlözer, peraltro, lodava altrove la Germania come l'unico paese al mondo ove senza pregiudizio della dignità del principe si poteva agire contro di lui in via di giustizia, alludendo con ciò ai tribunali dell'Impero (ivi, 107). A.L. SCHLÖZER, op. cit., 96-97.

 

[18] E. BUSSI, Il principio rex sub lege, cit., 344.

 

[19] L. BUSSI, Fra unione personale e Stato sovranazionale. Contributo alla storia della formazione dell’Impero d’Austria, Milano, 2003, 399.

 

[20] E. BUSSI, Stato e amministrazione nel pensiero di Carl Gottlieb Svarez, precettore di Federico Guglielmo III di Prussia (Archivio della Fondazione italiana per la Storia amministrativa), Milano, 1966, 39.

 

[21] L. BUSSI, op. cit., 209 ss.

 

[22] Nel diritto pubblico tedesco l’idea del fisco rinvia agli iura fisci, cioè ai proventi che derivano al principe in quanto tale: ammende, confische dei beni vacanti, tesori trovati, e così via. Il fisco è la cassa che riceve tutto ciò. In origine si tratta di diritti che appartengono al solo Imperatore; ma in prosieguo di tempo il processo di assimilazione ad esso dei principi territoriali fa sì che questi ne divengano anch’essi titolari. Vedi  E. BUSSI, Evoluzione storica dei tipi di Stato, Cagliari 1970 = Milano 2002.

 

[23] Per B. SORDI, Dalla scienza di polizia al diritto amministrativo, in A Ennio Cortese, cit, III, 322, nei manuali di diritto di polizia a cavallo fra Settecento e Ottocento, il conflitto fra affare di giustizia e affare di polizia possiede già i toni e le articolazioni della grande opposizione fra giustizia e amministrazione che attraverserà tutta la stagione dello Stato di diritto ottcentesco.